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La VOCE ANNO XIX N°1

settembre 2016

PAGINA 8

Segue da pag. 8: Legge elettorale.

A parte le perplessità a proposito del spartitino” del Presidente, che verrebbe così costituito, una cosa sono i senatori a vita in un Senato avente finalità generali, altra cosa, assai più discutibile, sono i senatori eletti in un Senato delle autonomie (G. Silvestri, S. Mangiameli).
Da questo diverso angolo visuale, volendo a tutti i costi mantenere questo pubblico riconoscimento per chi ha illustrato la Patria, sarebbe allora più logico (rectius, meno illogico) che il riconoscimento avvenisse nell’ambito della Camera dei deputati, in quanto essa sola manterrebbe le funzioni di rappresentanza generale del popolo italiano nell’ambito delle quali i deputati sdel Presidente” avrebbero una indubbia funzione culturale da svolgere.
Il vero è che tutti questi apparenti errori e apparenti strafalcioni costituiscono piuttosto dei precisi tasselli che determineranno lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo.

Grazie all’attribuzione alla sola Camera dei deputati del rapporto fiduciario col Governo, e, grazie all’Italicum - in conseguenza del quale il partito di maggioranza relativa, anche col 30 per cento dei voti e col 50 per cento degli astenuti, otterrebbe la maggioranza dei seggi - l’asse istituzionale verrà spostato decisamente in favore dell’esecutivo, che diverrebbe a pieno titolo il dominus dell’agenda dei lavori parlamentari, con buona pace della citata sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, secondo la quale la srappresentatività” non dovrebbe mai essere penalizzata dalla sgovernabilità”.
Il Governo, rectius, il Premier, sarebbe quindi il dominus dell’agenda parlamentare, anche se un qualche problema la darà la cervellotica varietà di ben otto diversi iter legislativi a seconda delle materie (F. Bilancia).
Il Governo, rectius, il Premier, dominerà pertanto la Camera dei deputati cui non potrà contrapporsi, alla faccia del barone di Montesquieu, alcun potenziale contro-potere: né sesterno” - essendo il Senato ormai ridotto ad una larva - né sinterno”, grazie alla mancata esplicita previsione dei diritti delle minoranze (né il diritto di istituire commissioni parlamentari d’inchiesta, né il diritto di ricorrere alla Corte costituzionale contro le leggi approvate dalla maggioranza [M. Manetti]).
Il riconoscimento dei diritti delle opposizioni, nella Camera dei deputati, viene, dal snuovo” art. 64, graziosamente demandato esclusivamente ai regolamenti parlamentari, con la conseguenza che sarà il partito avente formalmente la maggioranza parlamentare e, quindi, il Governo, a precisarne i contenuti.
Con riferimento ai rapporti tra Stato e Regioni, la cartina di tornasole della contrazione delle autonomie territoriale è data dalla previsione della così detta sclausola di supremazia” (art. 117), con riferimento alla quale l’ex Presidente della Consulta, Gaetano Silvestri, ha osservato nella già citata audizione dinanzi al Senato, che suscita perplessità la previsione di una tale clausola, la quale ««ingloba in sé non solo la stutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica” pienamente condivisibile, ma anche la reintroduzione del famigerato sinteresse nazionale”, che nella prassi anteriore della riforma del 2001, si era rivelato uno strumento di azzeramento discrezionale dell’autonomia regionale da parte dello Stato (una sclausola vampiro”, secondo la felice espressione di Antonio d’Atena)»».
Onorevoli deputati e senatori, di fronte a questo criticabilissimo quadro normativo, e a maggior ragione discutibilissimo perché pretenderebbe di avere la forza e l’autorità morale della Costituzione della Repubblica italiana, il Comitato per il NO vi chiede di tentare con decisione di modificare l’attuale testo del d.d.l. cost. n. 2613-B; in subordine, di aderire a questo Comitato, e, infine, qualora tale d.d.l. cost. venisse definitivamente approvato, di impegnarvi fin da ora a richiederne la sottoposizione a referendum popolare.
∞∞∞

Senato elettivo; il gioco delle mistificazioni
Mauro Volpi
(da "Il Manifesto" del 26.9.’15)
La designazione dei senatori da parte dei Consigli regionali tra i propri componenti non costituisce certo l’unico aspetto negativo della riforma Renzi-Boschi. Basti pensare alla ridotta numerosità del Senato, che ne diminuisce notevolmente il peso specifico nella partecipazione alla elezione di organi di garanzia (Presidente della Repubblica, cinque giudici costituzionali, membri laici del CSM), posta di fatto nelle mani della maggioranza artificiale di un unico partito alla Camera. Evidentemente il mancato ridimensionamento del numero dei deputati era sgradito ai contraenti del spatto del Nazareno” e quindi alla Camera non si è applicato il sprincipio” della riduzione dei politici e delle relative spese sbandierato da Renzi per il Senato. Se si guarda poi alle funzioni del Senato, restano del tutto misteriose quelle di verifica e di controllo, mentre per le leggi monocamerali la maggioranza monopartitica della Camera potrà imporre la sua volontà senza difficoltà.
Inoltre è difficile pensare che un personale formato da consiglieri e sindaci, in assenza per di più dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle Città metropolitane, possa fare opposizione alle proposte del Governo, dal quale le Regioni saranno più dipendenti dal punto di vista politico e finanziario grazie alla ricentralizzazione operata dalla sriforma della riforma” del titolo quinto.
Infine l’attuazione delle garanzie della opposizione e il rafforzamento degli istituti di partecipazione (leggi di iniziativa popolare e referendum propositivo) sono rinviati a future modifiche dei regolamenti parlamentari, a leggi ordinarie e a leggi costituzionali, quindi in pratica alla buona volontà della maggioranza monopartitica della Camera.
In questo quadro la battaglia per l’elezione popolare del Senato, anche se non sufficiente, va condivisa per una ragione di principio, derivante dalla necessità di rispondere alla crisi della partecipazione popolare attestata dalla crescita dell’astensionismo, ed è convalidata dai sondaggi che segnalano la volontà di una grande maggioranza dei cittadini di eleggere il futuro Senato. Ma vi è anche la necessità di salvaguardare gli equilibri costituzionali, compromessi da una legge elettorale abnorme che alla Camera potrebbe assegnare la maggioranza più che assoluta dei seggi ad un solo partito che, in considerazione del livello di astensionismo, ottenga un numero anche ridotto dei voti degli elettori, e darebbe vita ad un’assemblea formata per circa due terzi da nominati.
Contro la proposta del Senato elettivo si è scatenata l’offensiva di opinionisti e di studiosi filo-renziani, che ultimamente ha utilizzato argomenti di natura comparativa per squalificarla. Così si è scritto che la designazione indiretta dei senatori sarebbe dominante negli Stati federali e in quelli regionali. Per i primi niente di più falso: l’elezione popolare del Senato è prevista negli Stati Uniti (dove fu introdotta nel 1913, anche per ridurre i fenomeni di corruzione determinata dall’elezione da parte dei Parlamenti degli Stati membri), in Svizzera, in Australia e negli Stati federali latino-americani (Argentina, Brasile e Messico). Quanto agli Stati regionali, vi è il caso, non certo di scarso rilievo, della Spagna, dove i quattro quinti dei senatori sono eletti dal popolo e solo il quinto restante è designato dai Parlamenti delle Comunità autonome. Qualcuno sposta l’attenzione sull’Unione europea per arrivare all’affermazione di D’Alimonte (ne Il Sole 24 Ore del 17 settembre) secondo la quale solo in cinque Paesi su ventotto è prevista l’elezione popolare della seconda Camera. E’ un gioco troppo facile, ma anche agevolmente smontabile. La verità è che in quindici Paesi vi è un sistema monocamerale, ipotesi che potrebbe essere certamente accolta in Italia, ma richiederebbe una legge elettorale profondamente diversa da quella approvata e la previsione nella Costituzione di forti garanzie della opposizione e delle minoranze. Ebbene, tra i quindici Paesi monocamerali quattordici adottano un sistema elettorale proporzionale, che in sei di essi è imposto dalla Costituzione. I correttivi adottati in alcuni (soglia di sbarramento e ridotta dimensione dei collegi) non sono in grado di garantire con certezza che un partito ottenga la maggioranza assoluta dei seggi. E nell’unico Paese, la Grecia, che prevede un premio di maggioranza al primo partito, questo è costituito da un numero fisso di deputati (50 su 300) che nelle tornate elettorali degli ultimi anni non gli ha mai consentito di raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi.
L’unico Paese monocamerale che adotta un sistema misto a prevalenza maggioritaria con meccanismi che possono dare un maggioranza abnorme al primo partito è l’Ungheria, che non è certamente oggi un modello da imitare. Fra i tredici Paesi bicamerali ben dieci hanno un sistema elettorale proporzionale e due (Regno Unito e Francia) un sistema maggioritario a uno o due turni in collegi uninominali. In definitiva, con buona pace di D’Alimonte, grazie all’Italicum il nostro è il solo Paese su ventotto ad avere adottato un sistema elettorale con premio di maggioranza, doppio turno di lista e attribuzione certa di una maggioranza più che assoluta dei seggi ad un solo partito.
Ma quanti sono i Paesi che adottano il modello renziano del Senato composto da membri dei Consigli regionali o locali da questi designati? Intanto dagli otto Paesi bicamerali che non prevedono l’elezione popolare della seconda Camera, va scorporato il Regno Unito, dove la Camera dei Lord non rappresenta certo le istituzioni territoriali e per la quale il governo conservatore-liberale aveva presentato un disegno di legge che prevedeva l’elezione popolare dell’80% dei componenti.
Ma non vi rientra neanche la Germania che adotta un sistema non senatoriale, ma ambasciatoriale, nel quale i consiglieri sono espressione degli esecutivi dei Laender e ogni delegazione esprime un unico voto. In Irlanda i senatori non rappresentano le istituzioni locali, ma diversi interessi culturali e professionali, come si verifica in Slovenia per il 40% dei senatori. In Francia è molto ampia la platea degli elettori (circa 150.000) in rappresentanza di tutte le collettività territoriali. Non restano che Austria, Paesi Bassi e Belgio, ma nei primi due Paesi, così come in Francia, può essere eletto senatore qualsiasi cittadino, mentre solo in Belgio 50 senatori su 60 sono eletti dalle assemblee rappresentative delle Comunità linguistiche tra i propri membri. Utilizzando il metodo D’Alimonte, si potrebbe affermare che ad oggi tra i ventotto Paesi dell’Unione uno solo, il Belgio, prevede che i senatori siano designati dai Parlamenti delle istituzioni territoriali tra i propri componenti.
Infine, tra i cinque Paesi che prevedono l’elezione popolare, solo in due (Italia e Romania) il Senato vota la fiducia e la sfiducia al Governo, mentre negli altri tre (Repubblica Ceca, Polonia, Spagna) il rapporto di fiducia intercorre solo fra Governo e Camera dei deputati. Il che smentisce l’opinione secondo la quale l’elezione popolare del Senato imporrebbe l’esistenza del rapporto di fiducia con il Governo. Inutile dire che in nessun Paese bicamerale è previsto che i senatori siano eletti dalle assemblee territoriali su indicazione degli elettori in base alle leggi elettorali” locali, formula non di mediazione, ma ambigua e truffaldina che riduce gli elettori a massa di manovra per avallare scelte calate dall’alto.
In definitiva il Senato voluto da Renzi non sarebbe affatto più seuropeo” e le esperienze alle quali sarebbe più vicino (Austria e Belgio) sono contrassegnate dalla forte partitizzazione e dal ruolo secondario della seconda camera.

Riforma del Senato? Proviamo a valutarne gli esiti nello scenario peggiore
Walter Tocci, senatore, 13.10.’15
Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l’approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l’Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.
I giuristi sono soliti fare la prova di resistenza delle leggi, cioè di valutarne gli esiti nello scenario peggiore. Proviamo anche noi. Un leader che raccoglie meno di un terzo dei consensi conquista il banco, è in grado di governare da solo —e fin qui si può accettare— ma può anche modificare le regole fondamentali con spirito di parte senza essere costretto a discuterne con tutti. Può decidere da solo sui diritti fondamentali di libertà, sull’indipendenza della Magistratura, sulle regole dell’informazione, sui principi dell’etica pubblica, sulla dichiarazione di guerra, sulle prerogative del ceto politico, e infine riscrivere le leggi elettorali e perfino ulteriori revisioni costituzionali al fine di prolungare sine die la vittoria che lo ho portato al potere. (...) Per tutto ciò il premier dispone di una maggioranza ubbidiente di parlamentari che ha scelto personalmente come capilista. D’altro canto, con l’Italicum i tre quarti dei parlamentari, sempre nel worst case scenario, sono sottratti al controllo degli elettori, non solo al momento del voto ma durante il mandato. Al contrario il premier riceve un’investitura diretta, seppure minoritaria, nel ballottaggio. Si crea così un forte squilibrio di legittimazione tra il capo del governo e l’assemblea, che si traduce in supremazia del potere esecutivo sopra il legislativo e indirettamente anche sull’ordinamento giudiziario. (...) I tre poteri fondamentali di una democrazia sono decisamente fuori equilibrio, e il principale fattore di questo squilibrio è il numero dei deputati. La Camera —unica depositaria del voto di fiducia— è sei volte più grande del ssenato. Di fatto è un monocameralismo. Niente di male in linea di principio, lo proponeva con ardore anche il mio caro maestro, il presidente Pietro Ingrao, e tanti altri nella Prima Repubblica, ma tutti lo compensavano con legge elettorale proporzionale. Nessuno lo avrebbe mai accettato con una legge ipermaggioritaria. Eppure, eliminare lo squilibrio numerico sarebbe facile e doveroso. In nessun Paese europeo si arriva a 630 deputati. E la proposta iniziale del governo faceva della riduzione dei parlamentari la priorità della revisione costituzionale. Perché allora non si riduce il numero dei deputati? Perché si cambia tutto tranne il numero della Camera? Da più di un anno questa domanda rimane senza risposta. Mi rivolgo in extremis alla ministra Boschi: abbia almeno la cortesia istituzionale di dare in quest’aula una spiegazione seria e convincente.
Sento già il ritornello —sallora vuoi far cadere il governo?”. è la domanda più stupida che si legge sui giornali. è una strabiliante inversione tra causa ed effetto. è inaudito che il governo ponga in sede politica una sorta di fiducia sul cambiamento della Costituzione. Non è mai accaduto nella storia della Repubblica. Il fatto che oggi venga considerato normale, che si dia quasi per scontato, che venga messo all’indice chi si sottrae, è la conferma che il dibattito pubblico italiano è malato, che già nell’agenda di discussione, prima ancora che nelle soluzioni, si vede un pericoloso sbandamento dei principi e dei valori.
∞∞∞

Perché non va questa riforma costituzionale
Lorenza Carlassare
, Professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università di Padova (6.10.’15) Non è facile parlare di riforme senza essere ripetitivi, da troppo tempo ne discutiamo. Tuttavia è ancora utile

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