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La VOCE ANNO XIX N°1

settembre 2016

PAGINA c         - 27

FULVIO SCAGLIONE - Il Libano al collasso e la strategia di Israele

Al Qaa. Cos’è? Dov’è? è un piccolo centro del Libano, con popolazione a maggioranza cristiana, nella valle della Bekaa, in una posizione strategica per i contatti (e ancor più per i traffici) tra Libano e Siria. Nel 2014, a pochi chilometri da qui, una vera battaglia scoppiò tra i miliziani dell’Isis e di Al Nusra e l’esercito libanese. Negli scontri 30 soldati e poliziotti libanesi furono rapiti dagli islamisti e solo 16 di loro poterono essere riscattati un anno e mezzo dopo. Da tempo quel confine è controllato da un cordone di soldati dell’esercito governativo siriano su un lato e di quello libanese sull’altro. Ma le infiltrazioni non si sono certo interrotte, tantomeno i traffici di armi e di qualunque altra merce clandestina possa servire alle due parti.

Un mese fa, Al Qaa è stata attaccata da otto kamikaze che, in due ondate successive, si sono fatti saltare tra le case, uccidendo solo un’altra persona oltre a se stessi ma ferendone una trentina. Le autorità libanesi, comunque, sospettano che il vero bersaglio non fosse Al Qaa. Nella loro ricostruzione, i kamikaze dovevano solo radunarsi ad Al Qaa e da lì essere poi forniti di documenti e trasportati altrove: a Baalbek o Hermel, roccaforti di Hezbollah, se non addirittura alla capitale Beirut. Con l’intento, ovviamente, di innescare una specie di bagno di sangue settario tra sciiti e sunniti.

La stessa cosa, anche se su scala ridotta, può dirsi però per Al Qaa e l’area che la circonda. La città è a maggioranza cristiana, ed è divisa, a causa dello sfruttamento dei terreni agricoli, da una fortissima rivalità economica che la oppone alla vicina Arsal, a maggioranza sunnita. I villaggi del circondario, invece, sono quasi tutti sciiti. Aggiungiamo che nella zona si sono installati circa 30 mila rifugiati siriani sunniti e diventa facile capire che la miscela esplosiva è pronta: i cristiani e gli sciiti considerano i rifugiati siriani, quasi tutti anti-Assad, come dei terroristi; i sunniti di Arsal li considerano invece patrioti.

Gli attentati di Al Qaa, puntualmente, hanno innescato un’onda di risentimento anti-rifugiati nella popolazione libanese, anche perché le prime indagini hanno fatto nascere il sospetto che i kamikaze venissero non dalla Siria ma dal campo profughi appunto vicino ad Arsal. Le autorità hanno imposto il coprifuoco ai rifugiati e hanno compiuto quasi 500 arresti nei campi. E almeno un paio di ministri, quello degli Esteri Gebran Bassil e quello del Lavoro Sajaan Azzi, hanno detto chiaro e tondo che i rifugiati siriani non sono più una questione umanitaria ma una minaccia alla sopravvivenza dello Stato.

Con 4,5 milioni di abitanti e 1,3 milioni di profughi, il Libano è sull’orlo del tracollo. Ed è piuttosto evidente che i gruppi islamisti attivi in Siria hanno usato i profughi come un’arma, spingendoli in massa verso il Libano dalle zone occupate nella regione a Nord di Damasco. Anche il prolungarsi della guerra contro l’Isis, a tutti gli effetti una guerra finta e gestita per dare all’Isis il tempo di fare il massimo danno alla Siria di Assad, ha tra i suoi scopi la destabilizzazione del Libano. Se la guerra si trascina, il numero dei profughi in Libano cresce. Aumentano i problemi (per esempio, nelle scuole libanesi ci sono ormai più bambini siriani che libanesi), i costi, i rischi. Il Libano si confronta da decenni con il problema dei profughi palestinesi, circa 500 mila e quasi tutti musulmani sunniti, ai quali non è mai stata concessa la cittadinanza proprio per non turbare il delicato equilibrio tra le religioni che garantisce la sopravvivenza del Paese. Figuriamoci, quindi, la pressione esercitata da 1,3 milioni di siriani (quasi tutti sunniti anche loro) che non hanno, al momento, alcuna speranza di rientrare nel loro Paese devastato da cinque anni di guerra civile.

A questa serie di incognite si aggiunge, per il Libano, la strategia di Israele. Siamo, proprio in questi giorni, nel decennale della guerra del 2006, scoppiata dopo il rapimento di due soldati israeliani lungo la “linea blu” di separazione che fu tracciata nel 2000 dall’Onu dopo il ritiro delle truppe di Israele dal Sud del Libano.

Oggi la situazione del Medio Oriente è perfetta per Israele, almeno dal punto di vista strategico. La Siria del nemico Assad è in fiamme, l’Iraq del regime sciita fedele all’Iran anche. La Turchia dell’amico-nemico Erdogan è piena di problemi. Egitto e Giordania sono Paesi amici e messi sotto pressione dalle questioni interne (l’Egitto) e dai profughi siriani (la Giordania), quindi per nulla inclini a colpi di testa. Le petromonarchie del Golfo Persico sono ormai alleate dello Stato ebraico. Del Libano abbiamo detto. In conclusione, Israele è oggi circondato da Paesi ufficialmente amici, ufficiosamente alleati oppure devastati da guerre e altre calamità. Non rientra nell’una o nell’altra categoria solo l’Iran, che infatti è la priorità assoluta della difesa, della sicurezza e della diplomazia israeliana.

In questi anni di guerra civile in Siria, le forze israeliane non hanno mai colpito i miliziani islamisti, fossero dell’Isis, di Al Nusra o di altre formazioni. Hanno spesso attaccato, invece, i reparti di Hezbollah e dei pasdaran iraniani che operano in Siria, fino all’assassinio mirato di Samir Kuntar, uno dei leader militari di Hezbollah ucciso nei pressi di Damasco. Al di là delle minacce di rito, è chiaro che Hassan Nazrallah e Hezbollah non hanno, oggi, la volontà di scatenare un’altra guerra contro Israele, né la minima possibilità di sostenere un vero scontro.

Al contrario, la tentazione della spallata potrebbe venire proprio a Israele, magari in coincidenza con il cambio di inquilino della Casa Bianca. Il pericolante Libano potrebbe prendere il posto della Siria, la cui guerra civile è soprattutto espressione del desiderio delle monarchie sunnite del Golfo di spezzare l’asse sciita che corre dall’Iran all’Iraq e alla Siria per sfociare in Libano. Il vero obiettivo dell’Isis non è Assad ma quell’asse. Se fallisse l’operazione tra Siria e Iraq, perché non provarci in Libano?

Netanyahu e il suo Governo hanno finora manovrato con grande abilità, soffiando sui fuochi giusti senza farsi trascinare oltre la soglia della convenienza strategica. Ma con un Presidente Usa che magari abrogasse il trattato sul nucleare siglato con l’Iran, certi giochi potrebbero riaprirsi.

Fulvio Scaglione - (30 luglio 2016)

Una nuova guerra in Libano è una scelta solo di Israele

Michele Giorgio | nena-news.it

14/07/2016

Hezbollah non può permettersela. Il movimento sciita è impegnato con migliaia di combattenti nel sanguinoso conflitto siriano e non può lottare su due fronti. Israele intanto prepara il secondo round del conflitto di dieci anni fa

Percorrendo le strade, talvolta tortuose, del Libano del sud fino al confine con Israele o la statale che corre nella Valle della Bekaa, non passano inosservati i volti su grandi poster dei "martiri" di Hezbollah, i combattenti del Partito di Dio libanese caduti in battaglia. Se prima del 2011 appartenevano ai morti nelle guerre contro l'occupazione israeliana, oggi su quei manifesti ci sono anche i giovani sciiti caduti nei combattimenti in Siria a sostegno dell'esercito governativo contro i jihadisti. Dieci anni dopo l'offensiva israeliana nel Libano del sud, la Harb Tammuz (Guerra di Luglio), la nuova generazione di "martiri" è figlia della crisi siriana. Certo, un altro conflitto tra Hezbollah e Israele è possibile, se ne parla da tempo e i comandi israeliani si preparano al nuovo "round". Da parte sua il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, avverte che il suo movimento possiede decine di migliaia di razzi e missili in grado di colpire anche Tel Aviv e di difendere il Libano. Eppure oltre i proclami bellicosi le due parti sanno che se scoppierà una nuova guerra a innescarla sarà Israele. Hezbollah non se la può permettere.

La disciplina e le motivazioni dell'ala militare del movimento sciita sono note. Tuttavia una guerra su due fronti va oltre le possibilità di Hezbollah che conterebbe su 15mila combattenti scelti e su una "riserva" di 20mila uomini. Certo, ha molti razzi ma contano poco quando si combatte sul terreno come nell'estate di dieci anni fa 2006 quando gli uomini del Partito di Dio inflissero pesanti perdite all'esercito israeliano che aveva invaso il Libano del sud. Non è noto il numero ufficiale di combattenti di Hezbollah in Siria. Sarebbero almeno 5mila secondo alcune fonti, impegnati intorno ad Aleppo, lungo il confine tra Siria e Libano contro al Nusra (al Qaeda), nella regione di Latakiya e in altre località dove la guerra miete ogni giorno decine di vite. Un impegno che sarebbe costato in quattro anni la vita di circa 1500 uomini, non pochi dei quali veterani delle guerre con Israele. La leadership di Hezbollah riconferma ad ogni occasione che l'impegno in Siria contro il jihadismo e a sostegno delle truppe siriane non è in discussione e all'interno del movimento e tra i simpatizzanti il consenso all'alleanza con il presidente siriano Bashar Assad resta altro. I morti però pesano e tante famiglie sciite libanesi piangono i loro giovani morti, trenta dei quali il mese scorso ad Aleppo.

La corda non è lunga e i vertici di Hezbollah sanno di non poterla tirare oltre. Israele ne è consapevole e ne ha approfittato per uccidere in Siria, con i suoi agenti segreti e l'aviazione, alcuni dei più importanti comandanti militari di Hezbollah: Imad Mughniyeh e, più di recente, Ali Fayyadh, Mahdi Obeid, Hussein al Haj, Jihad Mughniyeh (figlio di Imad), Samir Kuntar e forse anche il capo di stato maggiore Mustafa Badreddine. Perdite alle quali Hezbollah ha risposto con azioni limitate, per non offrire a Israele il pretesto per cominciare la terza guerra del Libano, dopo quelle del 1982 e del 2006.

Israele punta anche sulle difficoltà politiche che il movimento sciita e Hassan Nasrallah hanno all'interno del Libano e nel mondo arabo. Un tempo il segretario generale era il campione della resistenza contro Israele, amato dalle popolazioni arabe. Oggi, sull'onda del conflitto settario tra musulmani, sul quale puntano con più forza l'Arabia saudita e altre monarchie sunnite del Golfo, Nasrallah è accusato dalla maggioranza dei libanesi sunniti e dai cristiani legati alla destra, di aver "trascinato" il Paese nel bagno di sangue siriano e da non pochi arabi di lavorare per gli interessi dell'Iran. Nasrallah respinge le accuse, spiega le motivazioni strategiche dell'impegno in Siria ma nel clima che oggi si respira nel Paese dei Cedri, Hezbollah difficilmente riuscirebbe a giustificare un altro conflitto con Israele. Senza dimenticare che è ancora vivo il ricordo delle oltre 1200 vittime libanesi dei pesanti bombardamenti israeliani del 2006 su decine di villaggi del sud e a Beirut (i morti israeliani furono 160). «Per Israele questo è uno scenario da sogno – dice l'analista Maha Yahya del Carnegie Middle East Center «tutti i suoi nemici si ammazzano a vicenda in Siria e non deve tenere neanche un soldato sulle linee di fuoco». Dieci anni dopo quella del 2006 solo Israele può decidere di scatenare una nuova guerra in Libano.


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