LA VOCE   COREA   CUBA   JUGOSLAVIA   PALESTINA  SCIENZA 

Stampa pagina

 Stampa inserto 

LA VOCE 1609

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  


GIÙ

SU


La VOCE ANNO XIX N°1

settembre 2016

PAGINA h         - 32

Libia, la grande spartizione

Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe
Manlio Dinucci


«L’Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati uniti su alcuni obiettivi di Daesh a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1°re; agosto.

Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’Eni ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.

è la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia Usa/Nato, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.

Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.

Agli odierni raid aerei Usa in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati Usa da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l’utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».

Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.

Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la Nato sotto comando Usa effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.

(il manifesto, 3 agosto 2016)

Sullo stesso argomento vedi La notizia su Pandora TV

Ecco il lato antidemocratico di Google e Facebook

Gli algoritmi dei colossi informatici influenzano la politica e la cultura, ma c’è un problema: non sono soggetti a dibattito pubblico. Sono proprietà privata, ma hanno un peso pubblico sempre maggiore. Chi controllerà i signori di internet? di Marco Viviani - 2 Luglio 2016

Negli anni Sessanta Andy Warhol dipinse le sue bottiglie di Coca-Cola spiegando che era affascinato all’idea che il presidente degli Stati Uniti e l’ultimo della working class vivevano vite completamente distanti, ma bevevano entrambi la stessa bibita dallo stesso sapore. Quella uguaglianza esperienziale era un feticcio basato su distribuzione e segretezza della formula. Oggi accediamo ai contenuti online secondo una complessa serie di formule che nessuno conosce, un po’ come la famosa ricetta della Coca Cola: Facebook e Google sono nello smartphone di un deputato inglese sostenitore della Brexit e in quello del migrante che da un campo ai confini della Turchia sogna di vedere Londra. Nessuno dei due sa come funzionano. Del deputato e del migrante invece le web company sanno tutto. Grazie ai loro algoritmi.

La società algoritmica

Viviamo nella società degli algoritmi. Questi piccoli pezzi matematici che premiano i siti nella top list di Google e selezionano il 5% di tutto ciò che amici e pagine commerciali producono ogni giorno su Facebook destinandolo al News Feed (il restante 95% ci viene negato). è Facebook a decidere cosa ci piace, sigillandoci dentro una bolla. è Google a mettere in rilievo ciò che intendiamo trovare, monetizzandolo. Nati per risolvere il problema della complessità di
gestire l’enorme quantità di dati prodotti ogni istante in Rete, gli algoritmi sono fondamentali per l’iniezione di servizi intelligenti tagliati su misura per la nostra vita, ma solo una ristretta minoranza di persone dispone della tecnica di costruzione e una ancora più ristretta ne ricava immense quantità di denaro.

Il PageRank di Google è un oggetto mitologico che ha reso più importanti gli ottimizzatori della fantasia. Facebook ha fatto diventare le piccole variazioni del suo News Feed un evento mediatico, l’ultimo nei giorni scorsi: il social network ha nuovamente girato la manopola verso i contenuti originali degli amici allo scopo di frenare i contenuti spiacevoli e truffaldini con l’effetto però di costringere chi ha fatto investimenti per raggiungere le bacheche degli utenti a farne di altri, inseguendo, nel caso degli editori, uno stile comunicativo poco salutare per la qualità dell’informazione, dovendo competere sullo stesso piano con gattini, video virali e meme ironici.

Si chiama shaping, la forza modellante delle piattaforme che riesce a influenzare il giornalismo, la politica, l’opinione pubblica, non solo in termini economici, ma pure nei processi decisionali. Essendo tutti profilati, così da venderci pubblicità su misura,ci viene nascosta una grande quantità di informazioni dissonanti rispetto alle nostre abitudini. La società algoritmica è una sorta di zona di conforto mentale che non riguarda certo solo i social o i motori di ricerca: finanza, sanità, assicurazioni, lavoro, l’intera realtà fisica è collegata e modellata secondo obiettivi che spesso non contengono i discrimini culturali che fin qui hanno retto le scelte collettive. Gli algoritmi, costruiti da ingegneri che non hanno altri obiettivi se non quelli imposti dall’azienda, nascono senza una morale.

Facebook e Google sono nello smartphone di un deputato inglese sostenitore della Brexit e in quello del migrante che da un campo ai confini della Turchia sogna di vedere Londra. Nessuno dei due sa come funzionano. Del deputato e del migrante invece le web company sanno tutto

Le regole dei siti
Essendo così importanti, si sarebbe portati a pensare che ogni volta che ci iscriviamo a questi siti siamo a conoscenza del contratto. Sappiamo tutti però che non è così. La contrattualistica è spesso ignota e fumosa. I cambiamenti, ad esempio sulla privacy, si basano sul silenzio assenso. Ha uno stile tutto suo Facebook, che ciclicamente informa gli utenti di aggiornamenti alla Dichiarazione dei diritti e delle responsabilità; tre anni fa realizzò un referendum a cui partecipò lo 0,38% degli utenti (e votarono contro); un mese fa il social ha introdotto delle modifiche alla piattaforma pubblicitaria che ha cambiato la preferenza sulle inserzioni da mostrare all’esterno alle persone non registrate. Nessun utente aveva mostrato di saperne qualcosa e solo grazie ai blogger si sono sparse istruzioni su come raggiungere il pannello delle impostazioni e negare il consenso. Google si sforza un po’ di più, di recente Mountain View ha lanciato due nuovi portali per controllare le attività online e la personalizzazione degli annunci pubblicitari (myactivity e Controlla gli annunci), ma siamo sul terreno che ha aperto un terzo fronte con la Commissione Europea che accusa Google di impedire in qualche modo ai suoi clienti di investire in pubblicità su piattaforme concorrenti.

I rapporti con la politica
Non si può capire il peso di questi protagonisti senza considerare il loro rapporto con la politica
. Secondo Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, Google è un partner tecnologico della politica estera americana. Un’azienda che «fa sorveglianza di massa per fare affari e poi cede parte di questi dati alla politica» quando serve per restare nella giurisdizione favorevole del Paese a stelle e strisce. Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, è ormai un player del dibattito politico. Nel suo discorso di apertura alla conferenza degli sviluppatori lo scorso aprile ha apertamente criticato Donald Trump, promuovendo una visione del mondo che mette al centro, ovviamente, la libertà di accedere alla sua creatura. Che Facebook e in generale la Silicon Valley abbiano un cattivo rapporto con alcuni orientamenti politici emergenti è cosa nota: un ex dipendente ha persino denunciato alcune manipolazioni degli algoritmi per dare meno evidenza ad articoli sui repubblicani. Anche se Zuckerberg ha smentito, è parso a tutti una coincidenza singolare che il post più condiviso della storia del social sia la lettera di un newyorchese contro Trump.

Finanza, sanità, assicurazioni, lavoro, l’intera realtà fisica è collegata e modellata secondo obiettivi che spesso non contengono i discrimini culturali che fin qui hanno retto le scelte collettive

Il messianico della Silicon Valley
Ci si dovrebbe chiedere come sono riusciti, Google, Facebook, Amazon, Apple e compagni a realizzare tutto questo. La risposta è che gliel’abbiamo permesso noi. In qualche modo, spiega il filosofo Maurizio Ferraris nel suo saggio “Mobilitazione totale”, i servizi tecnologici hanno fatto emergere la nostra natura di schiavi volenterosi. Nel suo ultimo libro, "Psicopolitica", il filosofo Byung-Chul Han, che già aveva smontato il mito della trasparenza, sottolinea come il mondo digitale ci dà la sensazione di essere sempre liberi, autonomi, una seduzione fatale per il nostro istinto di conservazione che cede alla passività del consumatore cedendo anche tutti i suoi dati, tutto della sua vita. Perché non teme più nulla.

Evgeny Morozov, nemico pubblico numero uno della Silicon Valley, denuncia da anni il modello di queste società data-centriche che sono riuscite «a convertire ogni aspetto della nostra vita – ciò che di norma costituiva l’unica tregua dagli imprevisti del lavoro e dalle ansie del mercato – in una risorsa produttiva». La denuncia però cozza con la convinzione di molti che queste aziende siano davvero in grado di migliorare il mondo, di aumentarne il grado di uguaglianza e prosperità, promettendo una soluzione per tutto. Quello che ci aspetta dalla democrazia.

Ci si dovrebbe chiedere come sono riusciti, Google, Facebook, Amazon, Apple e compagni a realizzare tutto questo. La risposta è che gliel’abbiamo permesso noi

Che fare?
Costruiamo le nostre opinioni con mattoncini completamente diversi da quelli del passato. Capirli significa scoprire come si forma l’opinione pubblica che costituisce la base della democrazia. Dunque togliete lo sguardo dall’edicola o la televisione, e poggiatelo sul vostro smartphone. Se vorremo ancora garantire il bene della collettività in un mondo neo-elitario di decisori algoritmici costruiti da aziende non eleggibili, che non hanno un ruolo istituzionale, ci sono alcune vie, tutte complicate: imporre una impronta politica alla costruzione degli algoritmi, considerandoli alla stregua delle parole di una costituzione o di un trattato; accettare l’economia dei big data, ma cedere sovranità – editoriale e quant’altro – in cambio di altri dati, trattabili, di qualità, che forniscano visione, decisione, anche a noi. E soprattutto usare algoritmi e piattaforme contro il modello vigente, inventandone altri.
Altrimenti il rischio è di vedere svuotata la democrazia sostituita da un simulacro di decisione diretta, mai così intermediata da poteri senza volto e senza responsabilità.

Posted by: Andrea Martocchia

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  

Stampa pagina

 Stampa inserto 

LA VOCE 1609

 LA VOCE  COREA  CUBA  JUGOSLAVIA  PALESTINA  SCIENZA 

Visite complessive:
Copyright - Tutti gli articoli possono essere liberamente riprodotti con obbligo di citazione della fonte.