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La VOCE 2012

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La VOCE ANNO XXIII N°4

dicembre 2020

PAGINA E        - 37

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la politica estera di joe biden. di manlio dinucci. da il manifesto 10 novembre 2020, quali sono le linee programmatiche di politica estera che joe biden attuerà quando si sarà insediato alla casa bianca? lo ha preannunciato con un dettagliato articolo sulla rivista foreign affairs (marzo/aprile 2020), che ha costituito la base della piattaforma 2020 approvata in agosto dal partito democratico. il titolo è già eloquente: «perché l’america deve guidare di nuovo / salvataggio della politica estera degli stati uniti dopo trump». biden sintetizza così il suo programma di politica estera: mentre «il presidente trump ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner, e abdicato alla leadership americana, come presidente farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli stati uniti, e far sì che l’america, ancora una volta, guidi il mondo». il primo passo sarà quello di rafforzare la nato, che è «il cuore stesso della sicurezza nazionale degli stati uniti». a tal fine biden farà gli «investimenti necessari» perché gli stati uniti mantengano «la più potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che «i nostri alleati nato accrescano la loro spesa per la difesa» secondo gli impegni già assunti con l’amministrazione obama-biden. il secondo passo sarà quello di convocare, nel primo anno di presidenza, un «summit globale per la democrazia»: vi parteciperanno «le nazioni del mondo libero e le organizzazioni della società civile di tutto il mondo in prima linea nella difesa della democrazia». il summit deciderà una «azione collettiva contro le minacce globali». anzitutto per «contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari dell’alleanza e imponendo alla russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali»; allo stesso tempo, per «costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della cina, che sta estendendo la sua portata globale». poiché «il mondo non si organizza da sé», sottolinea biden, gli stati uniti devono ritornare a «svolgere il ruolo di guida nello scrivere le regole, come hanno fatto per 70 anni sotto i presidenti sia democratici che repubblicani, finché non è arrivato trump». queste sono le linee portanti del programma di politica estera che l’amministrazione biden si impegna ad attuare. tale programma – elaborato con la partecipazione di oltre 2.000 consiglieri di politica estera e sicurezza nazionale, organizzati in 20 gruppi di lavoro – non è solo il programma di biden e del partito democratico. esso è in realtà espressione di un partito trasversale, la cui esistenza è dimostrata dal fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto quelle relative alle guerre, vengono prese negli stati uniti su base bipartisan. lo conferma il fatto che oltre 130 alti funzionari repubblicani (sia a riposo che in carica) hanno pubblicato il 20 agosto una dichiarazione di voto contro il repubblicano trump e a favore del democratico biden. tra questi c’è john negroponte, nominato dal presidente george w. bush, nel 2004-2007, prima ambasciatore in iraq (con il compito di reprimere la resistenza), poi direttore dei servizi segreti usa. lo conferma il fatto che il democratico biden, allora presidente della commissione esteri del senato, sostenne nel 2001 la decisione del presidente repubblicano bush di attaccare e invadere l’afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan di 77 senatori che autorizzava il presidente bush ad attaccare e invadere l’iraq con l’accusa (poi dimostratasi falsa) che esso possedeva armi di distruzione di massa. sempre durante l’amministrazione bush, quando le forze usa non riuscivano a controllare l’iraq occupato, joe biden faceva passare al senato, nel 2007, un piano sul «decentramento dell’iraq in tre regioni autonome – curda, sunnita e sciita»: in altre parole lo smembramento del paese funzionale alla strategia usa. parimenti, quando joe biden è stato per due mandati vicepresidente dell’amministrazione obama, i repubblicani hanno appoggiato le decisioni democratiche sulla guerra alla libia, l’operazione in siria e il nuovo confronto con la russia. il partito trasversale, che non appare alle urne, continua a lavorare perché «l’america, ancora una volta, guidi il mondo». lukjanov: “da trump a biden? di male in peggio per mosca”, questa intervista a fyodor lukjanov, seppur realizzata prima delle elezioni negli stati uniti, offre un punto di vista molto interessante su quelle che saranno le relazioni fra usa e russia. di fulvio scaglione. da https://letteradamosca. fyodor lukjanov? uno che conta! la risposta degli amici di mosca è quasi automatica. d’altra parte, come dar loro torto? laureatosi nel 1991 presso l’università lomonosov di mosca come germanista, ha lavorato nel settore esteri di radio, televisioni e giornali. nel 2002 è diventato direttore di russia in global affairs, il più prestigioso periodico russo sulle questioni geopolitiche. e’ anche membro del consiglio per la politica estera e di difesa, un’organizzazione indipendente che raduna intellettuali, imprenditori, politici e militari, e del russian international affairs council. scrittore, ha dedicato libri e pubblicazioni, in russo e in inglese, ai rapporti tra europa e russia, alle relazioni transatlantiche e al ruolo internazionale della russia dopo l’avvento alla presidenza di vladimir putin. a lukjanov, quindi, ho chiesto di guardare alla sfida tra donald trump e joe biden con gli occhi di mosca, e di raccontarci quel che si vede. i rapporti con gli stati uniti sono ancora centrali nella politica estera della russia? “sì, certo. lo si capisce dalla retorica ufficiale, dall’attività dei diplomatici e dalla dolorosa reazione che sempre segue a tutto ciò che arriva da washington. a mio avviso, la centralità degli stati uniti per la nostra politica è stata eccessiva ed è durata fin troppo a lungo. dobbiamo superare l’americanocentrismo, ma purtroppo questo sta avvenendo molto molto lentamente”. dal punto di vista di mosca, i rapporti tra la russia e gli usa sono peggiorati o migliorati durante la presidenza di donald trump? “ovviamente peggiorati. sono in condizioni peggiori anche rispetto alla guerra fredda, è persino difficile dire da quando non andavano così male. non c’è un’agenda, non c’è nessun dialogo significativo, domina la “diplomazia del megafono”. e soprattutto, la russia è diventata un fattore nella politica interna americana. questo è l’aspetto più negativo in assoluto, perché il “tema russia” è diventato uno strumento della lotta tra loro, e se sei uno strumento non puoi in alcun modo cambiare lo stato delle cose. forse trump voleva davvero introdurre novità positive, ma non c’è riuscito o non ha fatto troppi sforzi perché non considera tale obiettivo così importante per la sua causa”. negli usa, molti autorevoli osservatori considerano queste elezioni “le più importanti nella storia del paese”. fyodor lukjanov, viste da mosca, queste elezioni sono davvero così importanti? il loro risultato avrà un’importanza decisiva sugli equilibrii globali e sulle relazioni tra america e russia?
“in un certo senso, è lo scontro tra due diverse visioni: una globalista, rappresentata da biden, e una nazionalista impersonata da trump. e poiché stiamo parlando del paese più influente del mondo, a livello globale molto dipende da quale delle due visioni prevale negli usa. direi quindi che il risultato del voto, qualunque sarà, non farà cambiare molto le relazioni russo-americane, ma potrà invece influire parecchio sul contesto mondiale”. lukjanov, per gli interessi strategici della russia, meglio un secondo mandato di trump o una vittoria di biden? “in linea di massima, non fa grande differenza. certo, se vincerà biden le relazioni tra i due paesi potrebbero peggiorare ulteriormente, perché con lui arriveranno alla casa bianca persone che si sentono personalmente offese dalla russia, convinte che fu proprio a causa della russia che hillary clinton, nel 2016, venne sconfitta. e vorranno vendicarsi. inoltre, i democratici rafforzeranno la retorica sulla democrazia e sui diritti umani e aumenteranno le attività americane nello spazio post-sovietico, leggermente diminuite con trump. maqueste sono, per così dire, fluttuazioni di mercato. in generale, la relazione tra usa e russia è e resterà stabilmente negativa, qualunque sia il risultato del voto”. che cosa si aspetta lei, lukjanov, per la russia, se trump sarà rieletto? molti lo considerano un “amico di putin” ma durante la sua presidenza le sanzioni contro mosca sono cresciute e la nato si è fatta sempre più aggressiva a est… “l’amico di putin” esiste solo nella propaganda anti-trump dei democratici, è proprio quel “tema russia” usato per la lotta interna di cui parlavo prima. non c’è stato alcun vantaggio per la russia con la presidenza trump. tutti i processi che sono considerati vantaggiosi per la russia, come l’indebolimento delle relazioni transatlantiche o la parziale riduzione delle ambizioni globali americane, sono fenomeni oggettivi, legati non a trump ma allo sviluppo del sistema internazionale. continueranno anche senza di lui, anche se forse in forme leggermente diverse”. e se invece diventerà presidente joe biden? “non vedo molto di buono all’orizzonte. sarà messa più enfasi sul progressismo e sulla democrazia come condizioni per la cooperazione con gli stati uniti e verrà intensificata l’opposizione all’influenza di mosca nei paesi vicini alla russia”. in che misura l’atteggiamento dell’europa nei confronti della russia dipende da queste elezioni americane? in altre parole: la pressione di trump sulla questione della difesa e della “sicurezza energetica” e il suo attrito con alcuni grandi paesi della ue, ad esempio la germania, hanno influenzato le relazioni tra europa e russia? cambierà qualcosa tra usa e ue se il nuovo presidente sarà biden? “la crisi delle relazioni transatlantiche non ha contribuito a migliorare l’atmosfera tra russia e ue. piuttosto il contrario. l’europa è incerta e disunita e il confronto con la russia è un fattore di coesione a cui la ue si tiene tenacemente aggrappata. l’europa ha problemi complessi, su cui dovrà concentrarsi nei prossimi anni. pertanto, non dovrebbero prodursi cambiamenti significativi nel rapporto con mosca, a prescindere da chi vincerànegli stati uniti”. e per i paesi come i baltici o la polonia, che da anni spingono per un confronto più aggressivo con mosca? che cosa faranno, secondo lei, dottor lukjanov? “continueranno in ogni caso a lucrare sulla posizione di “stati in prima linea contro la russia”. secondo lei, per chi fa il tifo segretamente vladimir putin? “probabilmente per trump che, come putin, odia il politically correct e l’ipocrisia. ma è una questione di simpatia personale, umana. con la politica c’entra solo indirettamente”. il russo comune, il signor ivan ivanov, segue questa sfida tra trump e biden? o è una questione che appassiona solo l’intelligencija? “secondo un recente sondaggio, l’interesse per le elezioni americane è basso, più che in passato. la campagna elettorale è rumorosa e invadente, molti sono semplicemente stanchi. c’è una percezione diffusa che in ogni caso nulla cambierà per la russia. il che vuol dire che, a dispetto di tutto, il mondo cambia, anche se lentamente. e gli stati uniti non sono più al centro dell’attenzione”. mister biden va a washington (forse). di marco pondrelli. c'è un'immagine che in modo chiaro e nitido rappresenta la polarizzazione della società statunitense: mentre il presidente trump sta denunciando quelli che a suo avviso sono brogli elettorali, il giornalista interrompe la diretta sostenendo che le accuse non sono provate. se pensiamo che nessun giornalista interruppe george bush quando parlava delle fantomatiche armi di distruzione di massa in iraq o che nessuno si permise di interrompere obama quando mentiva sulle armi chimiche usate da assad in siria, possiamo comprendere non solo la forte polarizzazione interna alla società statunitense ma anche il fastidio che un pezzo molto ampio di apparato americano aveva ed ha nei confronti di trump. sarebbe facile ironizzare sulle recenti elezioni dopo un percorso elettorale a dir poco tortuoso. quali sarebbero state le reazioni a washington se situazioni simili si fossero verificate in russia o in venezuela? lasciando da parte le ironie occorre innanzitutto concentrarsi sul sistema elettorale, che ha una sua giustificazione storica tesa a tutelare l'identità dei singoli stati. questo ovviamente produce delle storture, basti pensare che nel senato statunitense hanno due rappresentanti tutti gli stati, quindi il piccolo rhode island pesa quanto il texas o la california. una situazione simile si presenta alle elezioni presidenziali. in questo caso gli elettori di ogni stato eleggono dei 'grandi elettori' (gli stati più grandi ne eleggono di più e viceversa) in base al principio maggioritario, chi ottiene più voti, anche un solo voto in più, conquista tutti i grandi elettori di quello stato. viene eletto chi ottiene la maggioranza assoluta dei grandi elettori. normalmente in un'elezione presidenziale sono pochi gli stati contendibili ed all'interno di questi stati il risultati spesso viene deciso da poche contee. questo significa che le elezioni presidenziali sono decise da poche migliaia di voti e si può verificare anche il caso per il quale il candidato che a livello federale ottiene più voti non è eletto. le regole statunitensi sono queste, sorprende ascoltare in italia opinionisti che si scandalizzato di fronte un un presidente eletto con la minoranza dei voti espressi, quando gli stessi personaggi chiedono a gran voce un sistema elettorale maggioritario per il nostro paese, ma non è questo il tema dell'articolo... le presidenziali del 2020 passeranno alla storia per le forti tensioni che le hanno segnate, cosa avrebbero scritto i nostri giornali se, ad esempio in russia, putin avesse mandato milizie armate fuori dai seggi per 'controllare' il regolare svolgimento delle elezioni? ma le squadre armate non sono state l'unica novità. abbiamo infatti assistito ad un evento senza precedenti, formalmente a causa del covid 100 milioni di voti su 160 sono stati espressi per posta (si spiega così la percentuale dei votanti più alta negli ultimi 120 anni). è difficile non essere presi dal dubbio che qualche irregolarità possa essere stata commessa. i brogli non sono estranei alla storia elettorale degli stati uniti, non è un mistero, ma è solo un esempio, che un contributo importante all'elezioni di john kennedy nel 1960 arrivò dai morti di un cimitero vicino a chicago. queste elezioni sono quelle che più di tutte hanno mostrato che il re è nudo, è venuta meno la preoccupazione di salvare le apparenze e gli strascichi legali che stanno accompagnando il post-voto dimostrano come siano altri i poteri a determinare l'elezione del presidente e non certo il voto popolare (una situazione simile a quella dell'elezione di george w. bush). ..segue ./.

La politica estera di Joe Biden

di Manlio Dinucci

da il manifesto 10 novembre 2020

Quali sono le linee programmatiche di politica estera che Joe Biden attuerà quando si sarà insediato alla Casa Bianca? Lo ha preannunciato con un dettagliato articolo sulla rivista Foreign Affairs (marzo/aprile 2020), che ha costituito la base della Piattaforma 2020 approvata in agosto dal Partito Democratico.

Il titolo è già eloquente: «Perché l’America deve guidare di nuovo / Salvataggio della politica estera degli Stati uniti dopo Trump». Biden sintetizza così il suo programma di politica estera: mentre «il presidente Trump ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner, e abdicato alla leadership americana, come presidente farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli Stati uniti, e far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo».

Il primo passo sarà quello di rafforzare la Nato, che è «il cuore stesso della sicurezza nazionale degli Stati uniti». A tal fine Biden farà gli «investimenti necessari» perché gli Stati uniti mantengano «la più potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che «i nostri alleati Nato accrescano la loro spesa per la Difesa» secondo gli impegni già assunti con l’amministrazione Obama-Biden.

Il secondo passo sarà quello di convocare, nel primo anno di presidenza, un «Summit globale per la democrazia»: vi parteciperanno «le nazioni del mondo libero e le organizzazioni della società civile di tutto il mondo in prima linea nella difesa della democrazia».

Il Summit deciderà una «azione collettiva contro le minacce globali». Anzitutto per «contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari dell’Alleanza e imponendo alla Russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali»; allo stesso tempo, per «costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della Cina, che sta estendendo la sua portata globale».

Poiché «il mondo non si organizza da sé», sottolinea Biden, gli Stati uniti devono ritornare a «svolgere il ruolo di guida nello scrivere le regole, come hanno fatto per 70 anni sotto i presidenti sia democratici che repubblicani, finché non è arrivato Trump».

Queste sono le linee portanti del programma di politica estera che l’amministrazione Biden si impegna ad attuare. Tale programma – elaborato con la partecipazione di oltre 2.000 consiglieri di politica estera e sicurezza nazionale, organizzati in 20 gruppi di lavoro – non è solo il programma di Biden e del Partito Democratico. Esso è in realtà espressione di un partito trasversale, la cui esistenza è dimostrata dal fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto quelle relative alle guerre, vengono prese negli Stati uniti su base bipartisan.

Lo conferma il fatto che oltre 130 alti funzionari repubblicani (sia a riposo che in carica) hanno pubblicato il 20 agosto una dichiarazione di voto contro il repubblicano Trump e a favore del democratico Biden. Tra questi c’è John Negroponte, nominato dal presidente George W. Bush, nel 2004-2007, prima ambasciatore in Iraq (con il compito di reprimere la resistenza), poi direttore dei servizi segreti Usa.

Lo conferma il fatto che il democratico Biden, allora presidente della Commissione Esteri del Senato, sostenne nel 2001 la decisione del presidente repubblicano Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan di 77 senatori che autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq con l’accusa (poi dimostratasi falsa) che esso possedeva armi di distruzione di massa.

Sempre durante l’amministrazione Bush, quando le forze Usa non riuscivano a controllare l’Iraq occupato, Joe Biden faceva passare al Senato, nel 2007, un piano sul «decentramento dell’Iraq in tre regioni autonome – curda, sunnita e sciita»: in altre parole lo smembramento del paese funzionale alla strategia Usa.

Parimenti, quando Joe Biden è stato per due mandati vicepresidente dell’amministrazione Obama, i repubblicani hanno appoggiato le decisioni democratiche sulla guerra alla Libia, l’operazione in Siria e il nuovo confronto con la Russia.

Il partito trasversale, che non appare alle urne, continua a lavorare perché «l’America, ancora una volta, guidi il mondo».

Lukjanov: “da Trump a Biden? di male in peggio per Mosca”

Questa intervista a Fyodor Lukjanov, seppur realizzata prima delle elezioni negli Stati Uniti, offre un punto di vista molto interessante su quelle che saranno le relazioni fra USA e Russia

di Fulvio Scaglione

da https://letteradamosca

Fyodor Lukjanov? Uno che conta! La risposta degli amici di Mosca è quasi automatica. D’altra parte, come dar loro torto? Laureatosi nel 1991 presso l’Università Lomonosov di Mosca come germanista, ha lavorato nel settore esteri di radio, televisioni e giornali. Nel 2002 è diventato direttore di Russia in Global Affairs, il più prestigioso periodico russo sulle questioni geopolitiche. E’ anche membro del Consiglio per la Politica Estera e di Difesa, un’organizzazione indipendente che raduna intellettuali, imprenditori, politici e militari, e del Russian International Affairs Council. Scrittore, ha dedicato libri e pubblicazioni, in russo e in inglese, ai rapporti tra Europa e Russia, alle relazioni transatlantiche e al ruolo internazionale della Russia dopo l’avvento alla presidenza di Vladimir Putin. A Lukjanov, quindi, ho chiesto di guardare alla sfida tra Donald Trump e Joe Biden con gli occhi di Mosca, e di raccontarci quel che si vede.

I rapporti con gli Stati Uniti sono ancora centrali nella politica estera della Russia?

“Sì, certo. Lo si capisce dalla retorica ufficiale, dall’attività dei diplomatici e dalla dolorosa reazione che sempre segue a tutto ciò che arriva da Washington. A mio avviso, la centralità degli Stati Uniti per la nostra politica è stata eccessiva ed è durata fin troppo a lungo. Dobbiamo superare l’americanocentrismo, ma purtroppo questo sta avvenendo molto molto lentamente”.

Dal punto di vista di Mosca, i rapporti tra la Russia e gli Usa sono peggiorati o migliorati durante la presidenza di Donald Trump?

“Ovviamente peggiorati. Sono in condizioni peggiori anche rispetto alla Guerra Fredda, è persino difficile dire da quando non andavano così male. Non c’è un’agenda, non c’è nessun dialogo significativo, domina la “diplomazia del megafono”. E soprattutto, la Russia è diventata un fattore nella politica interna americana. Questo è l’aspetto più negativo in assoluto, perché il “tema Russia” è diventato uno strumento della lotta tra loro, e se sei uno strumento non puoi in alcun modo cambiare lo stato delle cose. Forse Trump voleva davvero introdurre novità positive, ma non c’è riuscito o non ha fatto troppi sforzi perché non considera tale obiettivo così importante per la sua causa”.

Negli Usa, molti autorevoli osservatori considerano queste elezioni “le più importanti nella storia del Paese”. Fyodor Lukjanov, viste da Mosca, queste elezioni sono davvero così importanti? Il loro risultato avrà un’importanza decisiva sugli equilibrii globali e sulle relazioni tra America e Russia?

“In un certo senso, è lo scontro tra due diverse visioni: una globalista, rappresentata da Biden, e una nazionalista impersonata da Trump. E poiché stiamo parlando del Paese più influente del mondo, a livello globale molto dipende da quale delle due visioni prevale negli Usa. Direi quindi che il risultato del voto, qualunque sarà, non farà cambiare molto le relazioni russo-americane, ma potrà invece influire parecchio sul contesto mondiale”.

Lukjanov, per gli interessi strategici della Russia, meglio un secondo mandato di Trump o una vittoria di Biden?

“In linea di massima, non fa grande differenza. Certo, se vincerà Biden le relazioni tra i due Paesi potrebbero peggiorare ulteriormente, perché con lui arriveranno alla Casa Bianca persone che si sentono personalmente offese dalla Russia, convinte che fu proprio a causa della Russia che Hillary Clinton, nel 2016, venne sconfitta. E vorranno vendicarsi. Inoltre, i Democratici rafforzeranno la retorica sulla democrazia e sui diritti umani e aumenteranno le attività americane nello spazio post-sovietico, leggermente diminuite con Trump. Maqueste sono, per così dire, fluttuazioni di mercato. In generale, la relazione tra Usa e Russia è e resterà stabilmente negativa, qualunque sia il risultato del voto”.

Che cosa si aspetta lei, Lukjanov, per la Russia, se Trump sarà rieletto? Molti lo considerano un “amico di Putin” ma durante la sua presidenza le sanzioni contro Mosca sono cresciute e la Nato si è fatta sempre più aggressiva a Est…

“L’amico di Putin” esiste solo nella propaganda anti-Trump dei democratici, è proprio quel “tema Russia” usato per la lotta interna di cui parlavo prima. Non c’è stato alcun vantaggio per la Russia con la presidenza Trump. Tutti i processi che sono considerati vantaggiosi per la Russia, come l’indebolimento delle relazioni transatlantiche o la parziale riduzione delle ambizioni globali americane, sono fenomeni oggettivi, legati non a Trump ma allo sviluppo del sistema internazionale. Continueranno anche senza di lui, anche se forse in forme leggermente diverse”.

E se invece diventerà presidente Joe Biden?

“Non vedo molto di buono all’orizzonte. Sarà messa più enfasi sul progressismo e sulla democrazia come condizioni per la cooperazione con gli Stati Uniti e verrà intensificata l’opposizione all’influenza di Mosca nei Paesi vicini alla Russia”.

In che misura l’atteggiamento dell’Europa nei confronti della Russia dipende da queste elezioni americane? In altre parole: la pressione di Trump sulla questione della difesa e della “sicurezza energetica” e il suo attrito con alcuni grandi paesi della UE, ad esempio la Germania, hanno influenzato le relazioni tra Europa e Russia? Cambierà qualcosa tra Usa e Ue se il nuovo presidente sarà Biden?

“La crisi delle relazioni transatlantiche non ha contribuito a migliorare l’atmosfera tra Russia e UE. Piuttosto il contrario. L’Europa è incerta e disunita e il confronto con la Russia è un fattore di coesione a cui la Ue si tiene tenacemente aggrappata. L’Europa ha problemi complessi, su cui dovrà concentrarsi nei prossimi anni. Pertanto, non dovrebbero prodursi cambiamenti significativi nel rapporto con Mosca, a prescindere da chi vincerànegli Stati Uniti”.

E per i Paesi come i Baltici o la Polonia, che da anni spingono per un confronto più aggressivo con Mosca? Che cosa faranno, secondo lei, dottor Lukjanov?

“Continueranno in ogni caso a lucrare sulla posizione di “Stati in prima linea contro la Russia”.

Secondo Lei, per chi fa il tifo segretamente Vladimir Putin?

“Probabilmente per Trump che, come Putin, odia il politically correct e l’ipocrisia. Ma è una questione di simpatia personale, umana. Con la politica c’entra solo indirettamente”.

Il russo comune, il signor Ivan Ivanov, segue questa sfida tra Trump e Biden? O è una questione che appassiona solo l’intelligencija?

“Secondo un recente sondaggio, l’interesse per le elezioni americane è basso, più che in passato. La campagna elettorale è rumorosa e invadente, molti sono semplicemente stanchi. C’è una percezione diffusa che in ogni caso nulla cambierà per la Russia. Il che vuol dire che, a dispetto di tutto, il mondo cambia, anche se lentamente. E gli Stati Uniti non sono più al centro dell’attenzione”.

Mister Biden va a Washington (forse)

di Marco Pondrelli

C'è un'immagine che in modo chiaro e nitido rappresenta la polarizzazione della società statunitense: mentre il Presidente Trump sta denunciando quelli che a suo avviso sono brogli elettorali, il giornalista interrompe la diretta sostenendo che le accuse non sono provate. Se pensiamo che nessun giornalista interruppe George Bush quando parlava delle fantomatiche armi di distruzione di massa in Iraq o che nessuno si permise di interrompere Obama quando mentiva sulle armi chimiche usate da Assad in Siria, possiamo comprendere non solo la forte polarizzazione interna alla società statunitense ma anche il fastidio che un pezzo molto ampio di apparato americano aveva ed ha nei confronti di Trump.

Sarebbe facile ironizzare sulle recenti elezioni dopo un percorso elettorale a dir poco tortuoso. Quali sarebbero state le reazioni a Washington se situazioni simili si fossero verificate in Russia o in Venezuela?

Lasciando da parte le ironie occorre innanzitutto concentrarsi sul sistema elettorale, che ha una sua giustificazione storica tesa a tutelare l'identità dei singoli stati. Questo ovviamente produce delle storture, basti pensare che nel Senato statunitense hanno due rappresentanti tutti gli stati, quindi il piccolo Rhode Island pesa quanto il Texas o la California. Una situazione simile si presenta alle elezioni presidenziali. In questo caso gli elettori di ogni stato eleggono dei 'grandi elettori' (gli stati più grandi ne eleggono di più e viceversa) in base al principio maggioritario, chi ottiene più voti, anche un solo voto in più, conquista tutti i grandi elettori di quello stato. Viene eletto chi ottiene la maggioranza assoluta dei grandi elettori. Normalmente in un'elezione presidenziale sono pochi gli stati contendibili ed all'interno di questi stati il risultati spesso viene deciso da poche contee. Questo significa che le elezioni presidenziali sono decise da poche migliaia di voti e si può verificare anche il caso per il quale il candidato che a livello federale ottiene più voti non è eletto.

Le regole statunitensi sono queste, sorprende ascoltare in Italia opinionisti che si scandalizzato di fronte un un presidente eletto con la minoranza dei voti espressi, quando gli stessi personaggi chiedono a gran voce un sistema elettorale maggioritario per il nostro paese, ma non è questo il tema dell'articolo...

Le presidenziali del 2020 passeranno alla storia per le forti tensioni che le hanno segnate, cosa avrebbero scritto i nostri giornali se, ad esempio in Russia, Putin avesse mandato milizie armate fuori dai seggi per 'controllare' il regolare svolgimento delle elezioni? Ma le squadre armate non sono state l'unica novità. Abbiamo infatti assistito ad un evento senza precedenti, formalmente a causa del covid 100 milioni di voti su 160 sono stati espressi per posta (si spiega così la percentuale dei votanti più alta negli ultimi 120 anni). È difficile non essere presi dal dubbio che qualche irregolarità possa essere stata commessa. I brogli non sono estranei alla storia elettorale degli Stati Uniti, non è un mistero, ma è solo un esempio, che un contributo importante all'elezioni di John Kennedy nel 1960 arrivò dai morti di un cimitero vicino a Chicago.

Queste elezioni sono quelle che più di tutte hanno mostrato che il re è nudo, è venuta meno la preoccupazione di salvare le apparenze e gli strascichi legali che stanno accompagnando il post-voto dimostrano come siano altri i poteri a determinare l'elezione del presidente e non certo il voto popolare (una situazione simile a quella dell'elezione di George W. Bush).

..segue ./.

  P R E C E D E N T E   

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