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La VOCE ANNO XXIII N°4

dicembre 2020

PAGINA c         - 27

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segue da pag.26: né biden né trump porranno fine all’occupazione israeliana della palestina. foto di copertina: bulldozer israeliani demoliscono una casa palestinese vicino a hebron, dove i permessi di costruzione sono difficili da ottenere – novembre 2020. credit: hazem bader / afp. l’occupazione israeliana della cisgiordania è indifferente al fatto se sia donald trump o joe biden a diventare presidente degli stati uniti; non fa differenza. l’occupazione ha ottenuto un’altra grande vittoria martedì, molto prima che i seggi elettorali chiudessero. è incredibile che due persone totalmente diverse come trump e biden condividano lo stesso impegno incontrovertibile: il sostegno americano all’occupazione israeliana in palestina. non sembra esserci una questione su cui i due sono più d’accordo, quindi l’identità del vincitore è irrilevante per l’occupazione. trump è un amico dei coloni e ha riconosciuto le alture del golan come parte di israele, ma anche biden non farà nulla per portare a un ritiro o addirittura congelare il progetto d’insediamento. e trump si fa beffe dei deboli, gli ultimi, i palestinesi. i diritti umani sono l’ultima questione che lo interessa, il diritto internazionale non è mai arrivato sulla sua scrivania e probabilmente non ha mai sentito parlare delle sofferenze dei palestinesi, facendo di lui l’opposto del suo rivale. biden sa una o due cose sui diritti umani, sui deboli, i diseredati e gli oppressi. l’apartheid con lui trema e le sofferenze dei palestinesi contano, ispirato da barack obama, che ha paragonato queste sofferenze alle passate sofferenze degli afroamericani. con biden, non vedremo figure prestigiose del calibro dell’ambasciatore americano amico dei coloni david friedman o jared kushner. saranno sostituiti da dei friedman più seri e moderati, ma biden non farà nulla per portare giustizia e redenzione ai palestinesi, applicando il diritto internazionale, se non solo a parole. dopo tutto, questo è ciò che ha fatto il grande obama. biden creerà un contesto diverso, meno umiliante per i palestinesi, con più autodeterminazione. quando lancerà il suo piano di pace, forse il centesimo piano americano incompiuto, non parteciperanno solo i rabbini ortodossi e i pastori evangelici, come nel “piano di pace” di trump. ci saranno anche i palestinesi. ma il seguito non sarà diverso: un servizio fotografico, un inviato speciale, in una bella giornata, persino una conferenza di pace, senza nessun cambiamento. i palestinesi continueranno a sanguinare ammanettati sul ciglio della strada, sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana che li opprime, mentre l’oman si aggrega al cosiddetto processo di pace. di tutte le questioni, una gode apparentemente di un ampio consenso internazionale, da blocco a blocco e da continente a continente. nessuna questione accomuna i paesi più dell’opposizione all’occupazione e del rifiuto di riconoscerla. questo è l’unica questione in cui non c’è differenza tra i presidenti degli stati uniti; nessun presidente ha considerato di porre fine a tutto ciò. forse non è ancora nato. nessuna spiegazione ragionevole si adatta a questo. tutte le statistiche che tracciano interessi diversi, americani o internazionali, non sono abbastanza convincenti per spiegare come, in una questione così chiara e ovvia; l’illegalità e l’ingiustizia dell’occupazione, la corsa verso la creazione di uno stato di apartheid e la sofferenza del popolo palestinese, milioni dei quali sono le uniche persone che non sono cittadini di nessuno stato, non ci sia differenza tra le amministrazioni statunitensi. dieci presidenti, 53 anni: l’occupazione è al culmine del suo potere e le possibilità che finisca sono più scarse che mai, sia con biden che con trump. la superpotenza che finanzia, equipaggia, sostiene e protegge la sua prediletta, israele, sta coprendo tutti i suoi crimini e non intende usare il suo potere per influenzare israele per porre fine all’occupazione. non ha mai avuto intenzione di farlo. l’america non è obbligata a farlo. israele porta il peso maggiore della colpa e della responsabilità. ma quando una superpotenza continua a sostenere automaticamente e incondizionatamente il paese responsabile di tutto questo, amministrazione dopo amministrazione, senza un presidente che si ponga la domanda: perché e fino a quando, anche questo è complice e criminale. la destra israeliana può smettere di preoccuparsi. una questione così scottante non si risolverà sulla scrivania dell’ufficio ovale, indipendentemente da chi ci sia seduto dietro. gideon levy è editorialista di haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. levy è entrato in haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. ha ricevuto il premio giornalistico euro-med per il 2008; il premio libertà di lipsia nel 2001; il premio dell’unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’associazione dei diritti umani in israele per il 1996. il suo nuovo libro, la punizione di gaza, è stato appena pubblicato da verso. trad: beniamino rocchetto – invictapalestina.org. gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi chiedono agli artisti internazionali di annullare gli impegni in israele. gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi a gaza e oltre hanno stilato un appello alla solidarietà a tutti coloro che a livello internazionale lavorano nelle arti. fonte: english version. artists for palestine – 29 ottobre 2020. gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi a gaza e oltre hanno stilato un appello alla solidarietà a tutti coloro che a livello internazionale lavorano nelle arti. siamo orgogliosi di pubblicare la loro lettera qui di seguito. “noi, membri della comunità culturale e artistica palestinese nella striscia di gaza assediata e occupata, nella palestina storica e in esilio, rivolgiamo questo accorato appello ai nostri colleghi artisti di tutto il mondo affinché cancellino tutte le esibizioni, le mostre e le apparizioni, in persona o online, programmate in israele o sponsorizzate dal governo israeliano o dalle istituzioni israeliane complici, finché persisterà il regime israeliano di occupazione militare e di apartheid. con la pandemia di coronavirus in corso, i crimini di guerra di israele e le violazioni del diritto internazionale continuano con un’impunità senza precedenti. anche nel combattere la pandemia, israele sta rivelando il suo spaventoso razzismo, un fatto che dovrebbe turbare la coscienza delle persone di tutto il mondo. israele ha abbandonato lavoratori palestinesi sospettati di avere il coronavirus ai posti di blocco militari “senza alcun riguardo per la loro salute o sicurezza”, come mostrano diverse riprese video. ha distrutto una clinica palestinese che era stata progettata per prendersi cura delle vittime del coronavirus nella valle del giordano occupata. ha anche negato il test covid-19 a intere comunità di cittadini palestinesi di israele e li ha discriminati in modo inconfutabile nel non rendere disponibili in arabo in modo tempestivo informazioni aggiornate e accurate sul coronavirus. l’onu ha da tempo affermato che gaza sarebbe stata invivibile entro il 2020, dopo tredici anni di un brutale assedio che ha confinato due milioni di palestinesi, per lo più rifugiati, in una stretta fascia costiera. israele ha sottoposto gaza a bombardamenti regolari, uccidendo migliaia di persone, tra cui nostri amici, colleghi e familiari, solo nell’ultimo decennio. qui stiamo raggiungendo la fine del 2020 mentre il mondo sta affrontando una pandemia globale a cui anche i palestinesi, inclusa gaza, devono in qualche modo sopravvivere. l’esperto dei diritti umani delle nazioni unite michael lynk ha recentemente evidenziato come il sistema sanitario di gaza stava crollando anche prima che venissero rilevati i primi casi di coronavirus,
segue da pag.27: gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi chiedono agli artisti internazionali di annullare gli impegni in israele. una vergognosa realtà per la quale israele, come potenza occupante, ha la piena responsabilità. oltre cinquemila prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane e milioni di palestinesi che vivono in campi profughi affollati dentro e fuori la palestina sono a grave rischio di contrarre il covid-19. gli ospedali palestinesi, specialmente a gaza, sono devastati da decenni di occupazione e assedio israeliani. una grave mancanza di forniture mediche essenziali e letti ospedalieri per terapia intensiva, unita a regolari interruzioni di corrente, significa che la crescente epidemia potrebbe avere conseguenze potenzialmente devastanti per i palestinesi a gaza. gli ospedali erano già al punto di rottura dovendo affrontare innumerevoli ferite da arma da fuoco provocate dal fuoco israeliano e le conseguenti amputazioni. a gaza, negli ultimi due anni, durante la pacifica grande marcia del ritorno, i cecchini israeliani hanno deliberatamente sparato e mutilato migliaia di palestinesi e ne hanno uccisi centinaia, tra cui bambini, medici, giornalisti e disabili. i cecchini israeliani hanno persino gareggiato per il numero di ginocchia che ciascuno di loro può affermare di aver fatto a pezzi, vantandosi pubblicamente dei loro “successi”. gli investigatori delle nazioni unite hanno affermato che queste atrocità possono costituire crimini di guerra o crimini contro l’umanità commessi contro persone che protestano per il diritto di tornare alle case e alla terra da cui sono stati etnicamente cacciati. due anni fa, a breve distanza in auto dalla tel aviv dell’apartheid, israele ha distrutto con attacchi aerei mirati un importante centro culturale di gaza, il said al-mishal. violazioni e abusi contro musicisti, poeti, attori e altri artisti palestinesi sono all’ordine del giorno, anche nella gerusalemme est occupata. come hanno riconosciuto i leader sudafricani, israele ha creato un sistema di apartheid ancora peggiore contro i palestinesi,un sistema con il quale si dovrebbe cessare ogni tipo di rapporto. in questo momento di sofferenza e di incertezza globale e di spaventosa impunità è inquietante che alcuni artisti internazionali abbiano ancora programmato di apparire di persona nella tel aviv dell’apartheid o online in eventi sponsorizzati da israele o dalle sue istituzioni culturali complici. in qualità di colleghi artisti, li esortiamo a cancellare i loro impegni, a stare dalla parte giusta della storia e a mostrare una significativa solidarietà con gli oppressi “. firmato da organizzazioni culturali: abna’ona association for development, ajyal association for creativity and development, al bayader theater group, al fordaws association for development, al harah theater, al karama complex for culture and arts, al manal association for women rural development, al rowad society for youth development, al sununu society for culture and arts, al taghreed association for culture, development, al-awda center for childhood and youth, al-kamandjati association, alrowwad cultural and arts society, amwaj association for social development and improvement, asalah commission for palestinian popular heritage, ashtar theater, association for culture, art and popular heritage, baladi center for culture and arts, bethlehem academy for music, bureij cultural forum, civitas institute, cultural al maghazi center, cultural and social deir al balah center, cultural forum for youth, cultural unity association, culture and free thought association (cfta), culture association for protection heritage, culture, arts and heritage association, dar elshabab for culture & development, el funoun palestinian popular dance troupe, freedom theater, gaza center for culture and arts, general union of cultural centres (gucc), jerusalemite youth cultural forum, khalil sakakini cultural center, milad centre for youth abilities development, nawa for culture and arts association, palestinian al najada association, palestinian circus school, popular art centre, sareyyet ramallah, siwar association for culture and arts, tawasul for youth and culture, the cultural forum centre, the edward said national conservatory of music, the palestinian association for heritage’s development and protection, theatre day productions, theatre for all, yes theatre, youth and environment association, artisti, ismail abu ali, suonatore di nai, khalil abu ghazal, cantante, abdulaziz abu sharkh, suonatore di qanun, abdulfattah abu srour, director, shahd abusalama,ballerino, yousri al-ghoul, writer, artista, nai barghouti, cantante, haidar eid, musicista, hanin ejla, cantante, samir eskanda, musicista, ibrahim ghunaim, rapper, mohammed jerjes, musicista, hannah khalil, drammaturgo, alaa khatib, pittore, ahmed masoud, autore, drammaturgo, malak matar, pittrice, mahmoud modallal, cantante, musicista, arab m. moghanni, snonou institution for culture, mona mosaddar, poetessa, emad mudallal, cantante, abdulkarim mudallal,cantante, may odeh, director, produttore, mohammed qraeqea, pittore, malek qraeqea, pittore, fahmy saqqa, suonatore di keyboard, compositore, ghada shuman, cantante, ahmed tafeish, cantante, le trio joubran, band. trad: grazia parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –invictapalestina.org. è morto robert fisk. dai troubles a sabra e shatila fino alle interviste con bin laden: se ne va il “reporter di guerra più famoso al mondo”. il 30 ottobre, a 74 anni, il giornalista che ha raccontato il medio oriente è deceduto dopo essere stato colto da un malore, un ictus, nella sua casa di dublino, dove si trovava dopo una vita passata nella sua seconda città, beirut, capitale del libano, dalla quale ha scritto tra i più importanti reportage e libri sui disastri dell’area. fonte: il fatto quotidiano. altri articoli di robert fisk sul blog di invictapalestina: niente più scuse: gli elettori israeliani hanno scelto un paese che rispecchierà i regimi brutali dei loro vicini arabi. a gaza si comincia a parlare di suicidi, nonostante il darsi la morte sia culturalmente considerato riprovevole. l’america ha dato il suo benestare al furto di terra. di gianni rosini | 2 novembre 2020. dai troubles nordirlandesi alle interviste con osama bin laden, dai massacri della guerra civile libanese alle intifada palestinesi. dalla metà degli anni 70, robert fisk ha vissuto in prima persona i principali eventi storici mondiali, diventando un punto di riferimento per giornalisti e tutti coloro che si sono interessati agli sviluppi nella scena mediorientale. il 30 ottobre, all’età di 74 anni, questo mostro sacro del giornalismo di guerra è morto dopo essere stato colto da un malore, un ictus, nella sua casa di dublino, dove si trovava dopo una vita passata nella sua seconda città, beirut, capitale del libano, dalla quale ha scritto tra i più importanti reportage e libri sui disastri del medio oriente, tanto da essere stato definito dal new york times, nel 2005, “probabilmente l’inviato di guerra più famoso al mondo”. classe 1946, inglese di nascita, ma irlandese d’adozione, fisk ha iniziato la sua carriera al sunday express, ma già nei primi anni 70 è diventato corrispondente da belfast, dove aveva seguito il conflitto nordirlandese. nel 1976 la svolta che ha cambiato la sua vita professionale e che gli ha permesso di diventare uno dei più importanti corrispondenti di guerra del giornalismo internazionale: si trasferisce a beirut, dove vivrà per gran parte della sua vita, per seguire i più importanti eventi della storia mediorientale prima per il the times e poi per l’independent, con alcuni contributi pubblicati anche sul fatto quotidiano. ..segue ./.
Segue da Pag.26: Né Biden né Trump porranno fine all’occupazione israeliana della Palestina

Foto di copertina: Bulldozer israeliani demoliscono una casa palestinese vicino a Hebron, dove i permessi di costruzione sono difficili da ottenere – novembre 2020. Credit: Hazem Bader / AFP

L’occupazione israeliana della Cisgiordania è indifferente al fatto se sia Donald Trump o Joe Biden a diventare presidente degli Stati Uniti; non fa differenza. L’occupazione ha ottenuto un’altra grande vittoria martedì, molto prima che i seggi elettorali chiudessero.

È incredibile che due persone totalmente diverse come Trump e Biden condividano lo stesso impegno incontrovertibile: il sostegno americano all’occupazione israeliana in Palestina. Non sembra esserci una questione su cui i due sono più d’accordo, quindi l’identità del vincitore è irrilevante per l’occupazione.

Trump è un amico dei coloni e ha riconosciuto le alture del Golan come parte di Israele, ma anche Biden non farà nulla per portare a un ritiro o addirittura congelare il progetto d’insediamento. E Trump si fa beffe dei deboli, gli ultimi, i palestinesi. I diritti umani sono l’ultima questione che lo interessa, il diritto internazionale non è mai arrivato sulla sua scrivania e probabilmente non ha mai sentito parlare delle sofferenze dei palestinesi, facendo di lui l’opposto del suo rivale.

Biden sa una o due cose sui diritti umani, sui deboli, i diseredati e gli oppressi. L’apartheid con lui trema e le sofferenze dei palestinesi contano, ispirato da Barack Obama, che ha paragonato queste sofferenze alle passate sofferenze degli Afroamericani.

Con Biden, non vedremo figure prestigiose del calibro dell’ambasciatore americano amico dei coloni David Friedman o Jared Kushner. Saranno sostituiti da dei Friedman più seri e moderati, ma Biden non farà nulla per portare giustizia e redenzione ai palestinesi, applicando il diritto internazionale, se non solo a parole. Dopo tutto, questo è ciò che ha fatto il grande Obama.

Biden creerà un contesto diverso, meno umiliante per i palestinesi, con più autodeterminazione. Quando lancerà il suo piano di pace, forse il centesimo piano americano incompiuto, non parteciperanno solo i rabbini ortodossi e i pastori evangelici, come nel “piano di pace” di Trump. Ci saranno anche i palestinesi.

Ma il seguito non sarà diverso: un servizio fotografico, un inviato speciale, in una bella giornata, persino una conferenza di pace, senza nessun cambiamento. I palestinesi continueranno a sanguinare ammanettati sul ciglio della strada, sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana che li opprime, mentre l’Oman si aggrega al cosiddetto processo di pace.

Di tutte le questioni, una gode apparentemente di un ampio consenso internazionale, da blocco a blocco e da continente a continente. Nessuna questione accomuna i paesi più dell’opposizione all’occupazione e del rifiuto di riconoscerla. Questo è l’unica questione in cui non c’è differenza tra i presidenti degli Stati Uniti; nessun presidente ha considerato di porre fine a tutto ciò. Forse non è ancora nato.

Nessuna spiegazione ragionevole si adatta a questo. Tutte le statistiche che tracciano interessi diversi, americani o internazionali, non sono abbastanza convincenti per spiegare come, in una questione così chiara e ovvia; l’illegalità e l’ingiustizia dell’occupazione, la corsa verso la creazione di uno stato di apartheid e la sofferenza del popolo palestinese, milioni dei quali sono le uniche persone che non sono cittadini di nessuno stato, non ci sia differenza tra le amministrazioni statunitensi. Dieci presidenti, 53 anni: l’occupazione è al culmine del suo potere e le possibilità che finisca sono più scarse che mai, sia con Biden che con Trump.

La superpotenza che finanzia, equipaggia, sostiene e protegge la sua prediletta, Israele, sta coprendo tutti i suoi crimini e non intende usare il suo potere per influenzare Israele per porre fine all’occupazione. Non ha mai avuto intenzione di farlo. L’America non è obbligata a farlo. Israele porta il peso maggiore della colpa e della responsabilità.

Ma quando una superpotenza continua a sostenere automaticamente e incondizionatamente il paese responsabile di tutto questo, amministrazione dopo amministrazione, senza un presidente che si ponga la domanda: perché e fino a quando, anche questo è complice e criminale. La destra israeliana può smettere di preoccuparsi. Una questione così scottante non si risolverà sulla scrivania dell’ufficio ovale, indipendentemente da chi ci sia seduto dietro.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato appena pubblicato da Verso.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

Gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi chiedono agli artisti internazionali di annullare gli impegni in Israele.



Gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi a Gaza e oltre hanno stilato un appello alla solidarietà a tutti coloro che a livello internazionale lavorano nelle arti

Fonte: English Version

Artists for Palestine – 29 ottobre 2020

Gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi a Gaza e oltre hanno stilato un appello alla solidarietà a tutti coloro che a livello internazionale lavorano nelle arti. Siamo orgogliosi di pubblicare la loro lettera qui di seguito.

“Noi, membri della comunità culturale e artistica palestinese nella Striscia di Gaza assediata e occupata, nella Palestina storica e in esilio, rivolgiamo questo accorato appello ai nostri colleghi artisti di tutto il mondo affinché cancellino tutte le esibizioni, le mostre e le apparizioni, in persona o online, programmate in Israele o sponsorizzate dal governo israeliano o dalle istituzioni israeliane complici, finché persisterà il regime israeliano di occupazione militare e di apartheid.

Con la pandemia di coronavirus in corso, i crimini di guerra di Israele e le violazioni del diritto internazionale continuano con un’impunità senza precedenti. Anche nel combattere la pandemia, Israele sta rivelando il suo spaventoso razzismo, un fatto che dovrebbe turbare la coscienza delle persone di tutto il mondo.

Israele ha abbandonato lavoratori palestinesi sospettati di avere il coronavirus ai posti di blocco militari “senza alcun riguardo per la loro salute o sicurezza”, come mostrano diverse riprese video. Ha distrutto una clinica palestinese che era stata progettata per prendersi cura delle vittime del coronavirus nella Valle del Giordano occupata. Ha anche negato il test COVID-19 a intere comunità di cittadini palestinesi di Israele e li ha discriminati in modo inconfutabile nel non rendere disponibili in arabo in modo tempestivo informazioni aggiornate e accurate sul coronavirus.

L’ONU ha da tempo affermato che Gaza sarebbe stata invivibile entro il 2020, dopo tredici anni di un brutale assedio che ha confinato due milioni di palestinesi, per lo più rifugiati, in una stretta fascia costiera. Israele ha sottoposto Gaza a bombardamenti regolari, uccidendo migliaia di persone, tra cui nostri amici, colleghi e familiari, solo nell’ultimo decennio.

Qui stiamo raggiungendo la fine del 2020 mentre il mondo sta affrontando una pandemia globale a cui anche i palestinesi, inclusa Gaza, devono in qualche modo sopravvivere. L’esperto dei diritti umani delle Nazioni Unite Michael Lynk ha recentemente evidenziato come il sistema sanitario di Gaza stava crollando anche prima che venissero rilevati i primi casi di coronavirus,
Segue da Pag.27: Gli artisti e le organizzazioni culturali palestinesi chiedono agli artisti internazionali di annullare gli impegni in Israele.

una vergognosa realtà per la quale Israele, come potenza occupante, ha la piena responsabilità.

Oltre cinquemila prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane e milioni di palestinesi che vivono in campi profughi affollati dentro e fuori la Palestina sono a grave rischio di contrarre il COVID-19. Gli ospedali palestinesi, specialmente a Gaza, sono devastati da decenni di occupazione e assedio israeliani. Una grave mancanza di forniture mediche essenziali e letti ospedalieri per terapia intensiva, unita a regolari interruzioni di corrente, significa che la crescente epidemia potrebbe avere conseguenze potenzialmente devastanti per i palestinesi a Gaza.

Gli ospedali erano già al punto di rottura dovendo affrontare innumerevoli ferite da arma da fuoco provocate dal fuoco israeliano e le conseguenti amputazioni. A Gaza, negli ultimi due anni, durante la pacifica Grande Marcia del Ritorno, i cecchini israeliani hanno deliberatamente sparato e mutilato migliaia di palestinesi e ne hanno uccisi centinaia, tra cui bambini, medici, giornalisti e disabili.

I cecchini israeliani hanno persino gareggiato per il numero di ginocchia che ciascuno di loro può affermare di aver fatto a pezzi, vantandosi pubblicamente dei loro “successi”. Gli investigatori delle Nazioni Unite hanno affermato che queste atrocità possono costituire crimini di guerra o crimini contro l’umanità commessi contro persone che protestano per il diritto di tornare alle case e alla terra da cui sono stati etnicamente cacciati

Due anni fa, a breve distanza in auto dalla Tel Aviv dell’apartheid, Israele ha distrutto con attacchi aerei mirati un importante centro culturale di Gaza, il Said al-Mishal. Violazioni e abusi contro musicisti, poeti, attori e altri artisti palestinesi sono all’ordine del giorno, anche nella Gerusalemme est occupata. Come hanno riconosciuto i leader sudafricani, Israele ha creato un sistema di apartheid ancora peggiore contro i palestinesi,un sistema con il quale si dovrebbe cessare ogni tipo di rapporto.

In questo momento di sofferenza e di incertezza globale e di spaventosa impunità è inquietante che alcuni artisti internazionali abbiano ancora programmato di apparire di persona nella Tel Aviv dell’apartheid o online in eventi sponsorizzati da Israele o dalle sue istituzioni culturali complici. In qualità di colleghi artisti, li esortiamo a cancellare i loro impegni, a stare dalla parte giusta della storia e a mostrare una significativa solidarietà con gli oppressi “.

Firmato da Organizzazioni culturali: Abna’ona Association for Development, Ajyal Association for Creativity and Development, Al Bayader Theater Group, Al Fordaws Association for Development, Al Harah Theater, Al Karama Complex for Culture and Arts, Al Manal Association for Women Rural Development, Al Rowad Society for Youth Development, Al Sununu Society for Culture and Arts, Al Taghreed Association for Culture, Development, Al-Awda Center for Childhood and Youth, Al-Kamandjati Association, Alrowwad Cultural and Arts Society, Amwaj Association for Social Development and Improvement, Asalah Commission for Palestinian Popular Heritage, Ashtar Theater, Association for Culture, Art and Popular Heritage, Baladi Center For Culture and Arts, Bethlehem Academy for Music, Bureij Cultural Forum, Civitas Institute, Cultural Al Maghazi Center, Cultural and Social Deir Al Balah Center, Cultural Forum for Youth, Cultural Unity Association, Culture and Free Thought Association (CFTA), Culture Association For Protection Heritage, Culture, Arts and Heritage Association, Dar Elshabab for Culture & Development, El Funoun Palestinian Popular Dance Troupe, Freedom Theater, Gaza Center for Culture and Arts, General Union of Cultural Centres (GUCC), Jerusalemite Youth Cultural Forum, Khalil Sakakini Cultural Center, Milad Centre for Youth Abilities Development, Nawa for Culture and Arts Association, Palestinian Al Najada Association, Palestinian Circus School, Popular Art Centre, Sareyyet Ramallah, Siwar Association for Culture and Arts, Tawasul for Youth and Culture, The Cultural Forum Centre, The Edward Said National Conservatory of Music, The Palestinian Association for Heritage’s Development and Protection, Theatre Day Productions, Theatre for All, Yes Theatre, Youth and Environment Association, Artisti, Ismail Abu Ali, suonatore di nai, Khalil Abu Ghazal, cantante, Abdulaziz Abu Sharkh, suonatore di qanun, Abdulfattah Abu Srour, director, Shahd Abusalama,ballerino, Yousri Al-Ghoul, writer, artista, Nai Barghouti, cantante, Haidar Eid, musicista, Hanin Ejla, cantante, Samir Eskanda, musicista, Ibrahim Ghunaim, rapper, Mohammed Jerjes, musicista, Hannah Khalil, drammaturgo, Alaa Khatib, pittore, Ahmed Masoud, autore, drammaturgo, Malak Matar, pittrice, Mahmoud Modallal, cantante, musicista, Arab M. Moghanni, Snonou Institution for Culture, Mona Mosaddar, poetessa, Emad Mudallal, cantante, Abdulkarim Mudallal,cantante, May Odeh, Director, produttore, Mohammed Qraeqea, pittore, Malek Qraeqea, pittore, Fahmy Saqqa, suonatore di keyboard, compositore, Ghada Shuman, cantante, Ahmed Tafeish, cantante, Le Trio Joubran, band

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

È morto Robert Fisk. Dai Troubles a Sabra e Shatila fino alle interviste con bin Laden: se ne va il “reporter di guerra più famoso al mondo”





Il 30 ottobre, a 74 anni, il giornalista che ha raccontato il Medio Oriente è deceduto dopo essere stato colto da un malore, un ictus, nella sua casa di Dublino, dove si trovava dopo una vita passata nella sua seconda città, Beirut, capitale del Libano, dalla quale ha scritto tra i più importanti reportage e libri sui disastri dell’area

Fonte: il fatto quotidiano

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L’AMERICA HA DATO IL SUO BENESTARE AL FURTO DI TERRA

di Gianni Rosini | 2 NOVEMBRE 2020

Dai Troubles nordirlandesi alle interviste con Osama bin Laden, dai massacri della guerra civile libanese alle Intifada palestinesi. Dalla metà degli Anni 70, Robert Fisk ha vissuto in prima persona i principali eventi storici mondiali, diventando un punto di riferimento per giornalisti e tutti coloro che si sono interessati agli sviluppi nella scena mediorientale. Il 30 ottobre, all’età di 74 anni, questo mostro sacro del giornalismo di guerra è morto dopo essere stato colto da un malore, un ictus, nella sua casa di Dublino, dove si trovava dopo una vita passata nella sua seconda città, Beirut, capitale del Libano, dalla quale ha scritto tra i più importanti reportage e libri sui disastri del Medio Oriente, tanto da essere stato definito dal New York Times, nel 2005, “probabilmente l’inviato di guerra più famoso al mondo”.

Classe 1946, inglese di nascita, ma irlandese d’adozione, Fisk ha iniziato la sua carriera al Sunday Express, ma già nei primi Anni 70 è diventato corrispondente da Belfast, dove aveva seguito il conflitto nordirlandese. Nel 1976 la svolta che ha cambiato la sua vita professionale e che gli ha permesso di diventare uno dei più importanti corrispondenti di guerra del giornalismo internazionale: si trasferisce a Beirut, dove vivrà per gran parte della sua vita, per seguire i più importanti eventi della storia mediorientale prima per il The Times e poi per l’Independent, con alcuni contributi pubblicati anche sul Fatto Quotidiano.

..segue ./.

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