LA VOCE | COREA | CUBA | JUGOSLAVIA | PALESTINA | SCIENZA |
Stampa pagina |
Stampa inserto |
LA VOCE 1509 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XVIII N°1 | settembre 2015 | PAGINA g - 31 |
LA CIVILTA' ITALIANA Un articolo di Mauro Munafò apparso su La Repubblica online del 3 giugno scorso rivela: "Gli italiani sono i più razzisti d'Europa: primi per odio contro i rom, i musulmani e gli ebrei" (1). L'articolo è stringato e oggettivo, si tratta infatti solo della sintesi di alcuni dei risultati di una recente una ricerca scientifica pubblicata dal Pew Research Center (2) riguardante in generale le opinioni e le attitudini delle nazioni europee sulle grandi questioni globali. La sociologia e l'antropologia sono scienze importanti e difficili. L'indagine statistica è lo strumento più utilizzato nella ricerca in campo sociologico; ovviamente, come per ogni esperimento scientifico, anche l'indagine statistica può essere più o meno significativa a seconda di quali "domande" vengono poste all'oggetto di indagine e di come vengono poste. In questo caso, la significatività dei quesiti è fuori discussione: il campione è stato scelto con metodi avanzati e il margine di errore possibile è valutato al 4,1 per cento. Quello che emerge è che tra i popoli europei non c'è nessuno che batta gli italiani quando si parla di detestare i rom (l'86% contro, ad esempio, il 60% della Francia e il 34% della Germania) e odiare i musulmani (il 61% contro, ad esempio, il 42% della Spagna e il 19% del Regno Unito). Sugli ebrei invece andiamo "meglio": siamo secondi in termini di diffidenza e intolleranza (21%), dietro alla sola Polonia che comunque ci batte di poco (28%). Questa indagine segue di pochi mesi a un'altra, sempre sintetizzata da Munafò (su La Repubblica online del 29 ottobre 2014) (3), dedicata alle false percezioni in merito alla realtà sociale in cui si vive. In questo caso, la ricerca effettuata dall' Ipsos Mori, un ente del Regno Unito (4), mostra che gli italiani sono convinti che il 30 percento della popolazione sia composta da immigrati (in realtà è il 7), che il 20% siano musulmani (sono appena il 4), che il 48% siano over 65 (sono in realtà il 21) e che i disoccupati siano addirittura il 49 percento (mentre sono il 12)... In pratica, qui si vive in una continua angoscia da "invasione" e "minaccia sociale". Queste convinzioni errate sono evidentemente anche il frutto dell'allarmismo e della disinformazione strategica propinata dai mass-media, la cui funzione in regime capitalistico è quella di mettere i lavoratori in stato di soggezione e di guerra; tuttavia, il fatto che nella società italiana, diversamente da altre nazioni, non esistano praticamente anticorpi intellettuali per difendersi a livello collettivo dal lavaggio del cervello, dal pregiudizio e dal pettegolezzo inculcati dai padroni è un dato di fatto. Tale assenza di anticorpi deriva dalla arretratezza del nostro habitat culturale: non a caso Munafò sintetizza questi risultati come i segni di una fondamentale "ignoranza". Ignoranza e razzismo non sono due cose tanto diverse: si tratta in effetti delle due facce di una stessa medaglia. Ritorniamo per un attimo al fenomeno dell'odio razzista. In realtà, chi vive in Italia sa bene che l'odio di cui si nutrono gli italiani non è rivolto solamente o necessariamente verso "gli stranieri": è un odio anche interno, che si riproduce uguale a se stesso, con simmetria quasi frattale, passando dalla dimensione internazionale a quella inter-regionale e dalla piccola alla piccolissima scala; la tendenza ultima e più generale è quella di accanirsi contro il più debole e il più "sfigato". Questo odio si può esprimere liberamente, in forme violente e con conseguenze talvolta tragiche, negli stadi, ma è avvertibile facilmente anche sui posti di lavoro e viene apertamente professato in pubblico, anche da partiti politici cui è dato ampio spazio sui media. In Veneto odiano i romani, a Roma Tor di Quinto si uccidono i napoletani, a Napoli si bruciano i campi Rom; a Milano si urla "Forza Etna", mentre in Sicilia si diffida degli arabi. In effetti, l'antropologia nazionale è stata forgiata nel Medioevo dei Comuni a forza di guerre campanilistiche, per cui ancora oggi in regioni "insospettabili" come la Toscana, l'Umbria o le Marche capita di assistere a manifestazioni di odio immotivato verso le città e le province più vicine. Nelle nostre comunità, chi arriva "da fuori" e non fa parte del clan è elemento di disturbo e deve passare una serie di "prove di fedeltà" prima di essere accettato. La tendenza decompositiva, anti-solidale e disgregante è analoga se andiamo ad analizzare i rapporti su piccolissima scala: ci si odia tra vicini di casa al punto che le riunioni condominiali sono il luogo per eccellenza delle liti tra persone – ed i fatti di cronaca nera stanno a dimostrarlo. Ma già osservando come gli italiani guidano la macchina si comprende che mancando il senso della collettività, a vincere è sempre la prepotenza. Chi è sopra mette i piedi in testa a chi è sotto e attorno tutti fanno l'occhiolino perché è "furbo". Il noto sindacalista, rappresentante dei macchinisti delle FS Dante De Angelis, notava all'inizio di luglio che << l'altro ieri a Roma un treno della metro B è partito da Termini con una porta aperta. Tutti hanno accusato il macchinista perché è partito. Qualcuno lo vorrebbe 'licenziare'. Ieri, sempre a Roma, un treno della metro B non è partito da Tiburtina con una porta aperta. Tutti hanno accusato il macchinista perché non è partito. Qualcuno lo voleva 'linciare'. Linciati o licenziati: una scelta etica e professionale difficile da prendere su due piedi. >> Anche in questo caso, la rabbia si scaglia sempre contro l'ultimo anello della catena. L'ultimo anello della catena produttiva è il lavoratore, che fa da capro espiatorio. L'italiano reagisce ai problemi in maniera irrazionale, ed anziché organizzarsi collettivamente per migliorare, perpetua il suo vizio tradizionale di fare il bullo con i più deboli ed il vigliacco con i più forti. Il processo tendenziale è alla fine quello del "tutti contro tutti", storicamente arginato solo in due maniere: la prima è il riconoscimento degli interessi di classe e quindi l'organizzazione della lotta politica degli oppressi contro gli oppressori; la seconda è l'insorgere di un regime autoritario in cui le pulsioni aggressive siano unificate, trasformate in "volontà di potenza" nazionale e quindi scagliate sia contro i popoli vicini, sia contro alcuni elementi interni ritenuti destabilizzanti. Purtroppo, nella presente fase storica la prima via d'uscita appare preclusa, mentre risorgono facilmente movimenti reazionari di massa in grado di convogliare la carica di odio razzista e l'intolleranza sociale che covano sotto la cenere. Non è un caso che tra i pochi movimenti spontanei sorti negli ultimi anni, uno si sia autodefinito senza vergogna "movimento dei forconi", con un esplicito richiamo a memorie medioevali e vandeane – i forconi erano quelli delle cacce alle streghe o dei pogrom del Ku Kux Klan. Ed anche se il "movimento dei forconi" in quanto tale ha avuto vita breve, pogrom veri e propri si stanno verificando da alcuni anni sia contro i rom sia contro gli immigrati. Anna Maria Rivera (su Il Manifesto del 21 luglio 2015 (5)) ci ricorda che << la simbologia del pogrom si era già espressa, a Quinto di Treviso, col rogo delle suppellettili di uno degli alloggi destinati ai profughi: razziate, gettate in strada e date alle fiamme tra la folla plaudente. Ora il macabro festino dell’intolleranza si arricchisce di un dettaglio ancor più esplicito... In uno sgangherato messaggio via Facebook, l’autore delle minacce, il vicepresidente, leghista, del consiglio regionale delle Marche, indegno della carica istituzionale che ricopre, promette «olio di ricino» al «porco di un comunista». Siamo ormai a un punto di svolta allarmante, con Salvini che vomita quotidianamente ingiurie e cliché razzisti... il blocco fascioleghista, aizzato da caporioni quali Zaia e Salvini, imperversa da Nord a Sud, guidando la rivolta dei «proprietari del territorio»: marce, molotov, cassonetti incendiati e saluti romani. >> Ma << in realtà, coloro che si sono lasciati guidare dai fascioleghisti niente sanno dei profughi alloggiati o da alloggiare nel «loro territorio»: non ne conoscono neppure le nazionalità. Grazie al martellamento mediale dovrebbero, però, essere edotti dell’epopea che li vede tragici eroi del nostro tempo: la fuga da mondi in fiamme o in sfacelo. >> Qui Anna Maria Rivera si sbaglia di grosso, perché il martellamento dei media non è rivolto ad informare/formare la cosiddetta pubblica opinione sulle cause prime delle migrazioni verso l'Europa, e soprattutto non è mai finalizzato a stabilire un collegamento logico tra le guerre che l'Occidente fomenta e i flussi di profughi che l'Occidente lamenta: viceversa, il martellamento dei media ha come unico scopo quello di aizzare le pulsioni belluine dell'italiano medio per scagliarlo contro un altro sfigato come lui o peggio di lui, e produrre così il "dumping" dei diritti anticamente conquistati. La disponibilità di ampi strati della popolazione italiana a farsi strumentalizzare in questo senso, a partecipare a movimenti reazionari di massa, è il frutto di cronici complessi di inferiorità e di un più generale, drammatico provincialismo della nostra cultura, come dimostra il fatto che gli stessi italiani che odiano gli "zingari" fanno spesso grandi esternazioni esterofile e si sono dimostrati storicamente sempre pronti a fare i servi dei padroni di turno: "Francia o Spagna", Germania o Stati Uniti. A partire da questo si potrebbe ragionare sullo stato della nostra "civiltà", sull'arretratezza e sull'ulteriore arretramento culturale in corso, tra analfabetismo funzionale e analfabetismo di ritorno, sulla decadenza del sistema produttivo che è la radice strutturale di questi fenomeni. Sono argomenti ampi e complessi, temi per sociologi, antropologi ed economisti, che lasciamo ad altra sede ma che vanno affrontati: affrontarli scientificamente non implica il rischio di stabilire un paradigma uguale ed opposto, uno stigma (razzista?) anti-italiano, ma è invece una necessità se vogliamo fare i conti con il mondo reale. Per noi materialisti storici e dialettici non esistono tratti "congeniti" di un popolo, di un gruppo sociale o di una "razza", tuttavia esistono comportamenti collettivi ben individuabili e dimostrabili, persino "misurabili", che derivano dai contesti sociali e storici e che possono essere modificati intervenendo proprio sulla società e sul corso della Storia. Anche se attualmente – è vero – siamo pessimisti sulle nostre possibilità in tal senso. NOTE |