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LA VOCE 1509

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La VOCE ANNO XVIII N°1

settembre 2015

PAGINA 3

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Mafia Capitale e
l’indignazione popolare

di Angelo Cannatà
“La verità è che lo sapevamo da tempo, rubavano tutti; si fa fatica ad accettarlo ma così stanno le cose nella Capitale”. Ormai è sulla bocca di ogni persona, lo senti appena entri in un bar sull’Appia, sulla Tuscolana, ovunque: la condanna è unanime: mafia capitale si stava mangiando Roma. Le parole di Salvatore Buzzi – ascoltate e recepite – passano di bocca in bocca ed esplodono nell’espressione massima di sdegno: “è un magna magna, uno schifo”.

Come dare torto al barista, allo studente, all’impiegato, alla gente comune: sono indignati. E sorpresi: non per le mazzette in sé (di quelle si sapeva già), ma per l’entità, l’organizzazione capillare, il sistema. Ascolto: “Hai sentito Buzzi: a mucca deve magnà pe esse munta”. Un altro: “Mi ha colpito la frase: Siamo un taxi da cui non si scende”. Non si parla d’altro a Roma. Esco dal bar. Attraverso l’Appia e rientro a casa. Decido. Scrivo qualcosa per il giornale. Non ho l’incipit. Vabbè. Intanto metto giù qualche appunto.

1. Inutile che Orfini, Marino, Zingaretti facciano quadrato e si giustifichino: il Pd ha le sue responsabilità in questa lurida storia. Va detto. Ho votato questo partito più volte, ma le responsabilità oggettive – quelle soggettive le stabilirà il giudice – ci sono e non possono essere eluse. Prima si fa pulizia – veramente – dentro il Pd meglio è per tutti. Anche per il livello di democrazia del Paese visto che stiamo parlando del partito (ancora) più votato dagli italiani.

2. Quando la magistratura indaga con serietà e competenza – è il caso del procuratore Pignatone e del vice Prestipino – i risultati delle indagini arrivano. La magistratura va rafforzata, dotata di strumenti adeguati e messa in condizione di agire. Il marcio che ci circonda non si estirpa con l’uso sfrenato di twitter e discorsi in televisione di cui Renzi è maestro, ma con l’azione: chi, in qualche modo, la ostacola, è corresponsabile, se non colluso.

3. Le dichiarazioni dei politici le conosciamo, inutile ripeterle; le opposizioni (Salvini, Grillo…) chiedono le dimissioni di Marino. C’è un elemento di razionalità in questa richiesta, nonostante – direbbe Sciascia – il sindaco “sia il meno coinvolto di tutti”. Vedremo gli sviluppi. Intanto registriamo la proposta meno condivisibile (perché improduttiva) di Giorgia Meloni. Afferma: “Serve una commissione d’inchiesta”. Risibile. Quando non si vuole affrontare un problema si nomina una commissione d’inchiesta, e si rinvia. All’infinito.

4. Vediamola da vicino, comunque, una delle “perle” intercettate. Serve a capire. Insomma. Per Andrea Tassone – dice Buzzi – bastano 30 mila euro, “anche se quello m’ha chiesto il 10 per cento in nero dell’appalto. Te rendi conto? Nun se vergognano de gnente”. è incredibile e decisamente rivelatrice, questa frase. Pensateci, Buzzi è al centro del crimine, incarnazione dell’affarismo, corruttore assoluto, eppure vede e a suo modo “denuncia” (virgolette, prego) l’ingordigia schifosa di certi politici (“Nun se vergognano de gnente”). Dice più di mille editoriali.

5. La cosa che fa vomitare, inoltre, è che il malaffare, con Mafia Capitale, giri intorno al welfare, alla solidarietà. Per dirla in breve: ormai si fa fatica, anche nelle scuole – pur riconoscendo l’eticità dell’accoglienza – a parlare di centri di soccorso e immigrati, perché l’argomento è stato “sporcato” dalle sanguisughe del welfare, dall’immoralità criminale, da questi assatanati di denaro che conoscono il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna.

6. La corruzione e la mafia sono ormai saldamente insediate nelle grandi città d’Italia – da Milano a Roma –, qualcuno pensa ancora che sia possibile annientarle senza recidere, davvero, il legame con la politica? Il magistrato Di Matteo ricorda l’incontro decisivo col collaboratore di giustizia Cancemi: “Dottore, lo sa cosa mi ripeteva Riina? ‘Senza i rapporti con il potere, Cosa nostra sarebbe solo una banda di sciacalli’. Se non lo capite, non potrete mai contrastarla”. Parole decisive. Ho scoperto in quella occasione – dice Di Matteo – ‘il vero volto della mafia’: la sua potenza sta nel legame con la politica.” Vale anche oggi: al Sud, al Centro, al Nord. Ovunque. La potenza del crimine sta nel rapporto con le istituzioni.

7. Infine. Il Premier ha le sue responsabilità: con le sue leggi ha reso più difficile il contrasto alla corruzione politica, alle mafie e all’intreccio tra i due fenomeni (la legge sulla responsabilità civile dei giudici – per dire – non rafforza la posizione dei magistrati); sul tema della prescrizione ha “giocato” e fatto solo demagogia: ci vuole chiarezza: è un istituto che va seccamente abrogato dopo il rinvio a giudizio; e ancora: ha annunciato una stretta sulla pubblicazione delle conversazioni registrate dagli investigatori (chi verrà favorito se diventasse legge?). Eccetera. Quanto alle responsabilità passate del Pd, non va dimenticato che un pivot del sistema è quell’Odevaine che è stato il braccio destro e anzi l’ombra di Veltroni in tutti i lunghi anni in cui è stato sindaco.

Insomma. Se non si affrontano questi nodi (e in profondità il rapporto mafia-politica) tutto è destinato a ripetersi. Eternamente. Cambieranno i nomi dei protagonisti, ma la mafia, a Palermo, Reggio Calabria, Roma, Milano, continuerà a dominare. Si dice: “Chi ruba vada in galera.” Giusto. Ma la strada della giustizia è ancora molto lunga se il Pd – è inaudito! – attacca, con gli esponenti più alti, Rosy Bindi. A questo siamo. Terre di mafia e ‘ndrangheta e camorra non sono più solo Sicilia, Calabria, Campania ma anche le grandi città del Paese, in questo, ahimè, l’Italia è davvero unita. Non basta saperlo, occorre agire di conseguenza: innanzitutto non attaccando la presidente dell’antimafia. Ci sono temi sui quali la demagogia perde, smascherata dalla realtà. Presidente Renzi, la campana dell’indignazione popolare suona anche per lei.

(5 giugno 2015)


LA FURIA DEI CERVELLI - Reddito minimo, quel che Renzi non sa (o finge di non sapere)

Siamo alle solite: bordate senza senso e costrutto contro la previsione di un reddito minimo. Senza sapere di cosa si parla, per giunta. Confondendo una misura come il reddito minimo garantito, strumento che la gran parte dei Paesi della vecchia Europa conosce da innumerevoli decenni, con la tematica del reddito di cittadinanza, che è spesso più una discussione teorica, che una realtà politica. Tant’è che la stessa iniziativa legislativa del Movimento 5 Stelle, seppure usa la definizione “reddito di cittadinanza”, prevede uno strumento di reddito minimo garantito.

E questa volta le bordate escono dalla bocca del logorroico Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che pare così si sia pronunciato:

“Nella grande discussione sulla sinistra sarebbe interessante ragionare sul reddito di cittadinanza che secondo me è incostituzionale. L’articolo 1 della Costituzione dice che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Affermare che il compito della politica sia dare un assegno a chi non ha lavoro per me è la cosa meno di sinistra che esista. Il compito della sinistra è creare le condizioni perché ci sia un lavoro per tutti, non l’assistenzialismo per tutti. Ovviamente se uno perde il lavoro è giustissimo farsene carico... L’idea che siccome sono cittadino ho diritto a un reddito è sbagliata. Dobbiamo ritornare allo spirito dei nostri padri: a costruire una comunità in cui tutti possano avere un lavoro”.

Con l’aggiunta che il reddito minimo è una “roba da furbi”.

È un campionario di odiosi e faziosi luoghi comuni, utile, se non altro, a dimostrare l’italica arretratezza del dibattito politico, oltre che delle previsioni normative, riguardo il tema del Welfare universale. Bisognerebbe infatti ricordare al prode Renzi, e ai suoi ministri del Welfare e del lavoro, che misure universali di tutela delle persone lungo tutto l’arco della loro vita furono pensate in Inghilterra da Lord Beveridge nel 1942, certo non un radicale estremista, e poi attuate dai governi laburisti tra il 1946 e il 1951. Si basano proprio sulla previsione di un sussidio universale di disoccupazione e un reddito minimo garantito. Con il primo si prevede un sostegno monetario temporaneo per tutte le persone che perdono il lavoro, indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro precedente (dipendente, autonomo, temporaneo, a tempo indeterminato, etc.), cui si aggiunge una serie di altri benefit. Con il secondo, il reddito minimo garantito, si sostengono quelle persone che non arrivano a una determinata soglia di reddito, quantificata dalle istituzioni europee nel 60% del reddito mediano di ciascun Paese, al quale normalmente si affianca la previsione di specifici benefit.

È una misura volta a tutelare le persone non solo dalla mancanza di una retribuzione, ma anche dai ricatti del lavoro povero (Working Poors). Per mettere le persone nelle condizioni di poter condurre un’esistenza degna, libera e attiva, come nelle intenzioni del citato rapporto di Lord Beveridge del 1942: non a caso ancora a fondamento dell’attuale Welfare anglosassone, che tuttora ruota intorno agli strumenti del sussidio universale di disoccupazione, Jobseeker’s Allowance (comunemente definito The Dole, le cui origini si perdono negli anni Venti) e dell’Income support, per le persone che hanno un reddito al disotto di una certa soglia. Sono strumenti che dimostrano l’investimento delle istituzioni nel favorire l’autonomia delle persone: non lasciare da soli gli individui, accompagnandoli a riconquistare gli spazi di autodeterminazione e indipendenza, garantendo le condizioni fondamentali di una vita degna (assistenza abitativa, supporto economico, istruzione e formazione professionale, etc.).

E nel corso degli anni ’50, ’60, ’70 del Novecento la gran parte dei Paesi della vecchia Europa ha introdotto misure analoghe. Mentre da noi si affermava un sistema di Welfare sempre più selettivo, burocratico, assistenzialista, clientelare, paternalistico, vessatorio e corrotto. Che costa quanto gli altri sistemi di Welfare, ma esclude dalle garanzie di base tutti i lavoratori indipendenti e autonomi, così come la gran parte dei lavoratori precari, intermittenti, temporanei. Per tacere di inoccupati, disoccupati di lungo corso, giovani che né lavorano, né sono in processi formativi (NEET generation), oltre a tutte le persone costrette in lavori e “lavoretti” gratuiti e sottopagati, quasi neo-servili: dalla cura e assistenza alle persone, ai lavori domestici, etc.

Mentre la garanzia di un reddito e di un Welfare universalistico favorirebbe l’autonomia e il benessere delle persone e di una società. Perché non si tratta (solo) di lotta alla povertà, ma di promozione della libertà individuale e di migliori condizioni di vita per tutti. È un investimento che le istituzioni pubbliche fanno sulle persone e sulla collettività. Per evitare i ricatti della miseria e della povertà, che altrimenti generano paternalismi, dipendenza, clientelismi, corruzione, sfruttamento, malavita.

Ma tutto questo Renzi non lo sa. O finge di non saperlo. Ripiegando in accuse di assistenzialismo e furberia tipiche di quei due opposti schieramenti ideologici (il lavorismo filo-Pci e il paternalismo delle mentalità caritatevoli) che hanno prodotto l’iniquità dell’attuale modello di Welfare italiano, nella crisi della società salariale, quando il lavoro non basta più, come ricorda nel suo ultimo libro Chiara Saraceno (che sarà presentato a Roma il prossimo 12 giugno).

Eppure nell’XI Commissione permanente del Senato, Lavoro e previdenza sociale, giace il DdL S. 1148 che permetterebbe di unificare i tre progetti di legge (M5S, SEL e Pd) presenti nelle Camere per l’introduzione del reddito minimo garantito.

Ce lo chiede l’Europa, dal 1992, con la Raccomandazione 92/441/CEE.

Ma anche questo Renzi non lo sa.

La Furia dei Cervelli (Giuseppe Allegri - Roberto Ciccarelli)

(9 giugno 2015)

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