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La VOCE ANNO XXI N°2

ottobre 2018

PAGINA c         - 27

I pescatori di Gaza:
storia di quotidiana Resistenza

Un vecchio proverbio recita: “In una città costiera non mancherà mai il cibo”. Questo non vale per Gaza e per i suoi pescatori, che non hanno alcun controllo sulle proprie acque territoriali e possono essere privati in qualunque momento del frutto della loro fatica, delle loro barche e, perfino, del diritto di uscire in mare per provvedere ai propri bisogni. I pescatori gazawi non possono superare il limite delle sei miglia nautiche, anche se le acque a sovranità palestinese vanno ben oltre. Ma già se si allontano oltre le tre miglia dalla costa, le navi da guerra israeliane cominciano a mitragliare i pescherecci causando quotidianamente morti e feriti.

Questo limite illegale è stato imposto dalle Autorità israeliane, nonostante gli accordi di Oslo abbiano fissato a circa 20 miglia dalla linea costiera il limite massimo di allontanamento e nonostante le 12 miglia sancite dall’Accordo Bertini, stipulato nell’Agosto 2002 tra le Nazioni Unite e Israele. A novembre del 2012, con la mediazione egiziana, è stato firmato un “cessate il fuoco” che riportava il limite di distanza da Gaza a sei miglia nautiche, ma Israele, firmatario dell’accordo, si rifiuta di rispettarlo e ci sono state da quella data più di 265 violazioni da parte israeliana.

In conseguenza di ciò, i pescatori vengono quotidianamente arrestati, vengono loro confiscate le barche e le attrezzature, vengono feriti e uccisi. E’ importante notare che i pescatori si ritrovano a essere costretti a sfidare il limite imposto da Israele ogni giorno, dal momento che lo sfruttamento e l’inquinamento delle acque lungo la costa rende il mare poco pescoso. Inoltre, in alcuni periodi, attivisti internazionali accompagnano i pescatori nelle loro uscite in mare, nella speranza di fungere da deterrente per gli attacchi dei militari israeliani.

Le navi militari israeliane secondo il Sindacato dei pescatori di Rafah, nel sud della Striscia, pattugliano il mare 24 ore al giorno, sette giorni su sette, con il pretesto della sicurezza e del contrasto al traffico di armi. Secondo quanto riporta il Palestinian Center for Human Rights (Pchr), dal novembre 2012, sono stati danneggiati centinaia di pescherecci palestinesi e più di 4mila pescatori hanno sofferto in condizioni di indigenza perché è stato loro negato di rifornirsi di carburante per le loro imbarcazioni.

E’ necessario ricordare, a questo punto, che più di 75mila persone dipendono dalla pesca per la propria sussistenza e le condizioni imposte dall’occupante hanno portato a un considerevole peggioramento delle condizioni di vita di queste famiglie, oltre ad aver minato la base dell’economia palestinese. Mahfouz Al-Kabariti, coordinatore della Campagna di Solidarietà dei Pescatori nella Striscia di Gaza, sostiene che attaccare i pescatori nelle acque palestinesi è una pratica israeliana sistematicamente attuata sotto il pretesto della sicurezza. “La Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono considerati mercati per i prodotti israeliani; impedendo ai pescatori di Gaza di lavorare, i palestinesi dipenderanno dall’importazione israeliana”.

Al-Kabariti riferisce inoltre che i pescatori gazawi vivono sotto costante ricatto dei militari israeliani, che arrestano i loro figli e danneggiano le barche, al punto che gran parte del ricavato delle notti di pesca va a coprire le spese per le riparazioni delle attrezzature. Secondo alcuni analisti politici, questi attacchi continui ai pescherecci avvengono in relazione al fatto che sono stati scoperti di recente dei giacimenti di gas naturale al largo delle coste di Gaza, e il governo di Tel Aviv ha tutto l’interesse di essere l’unico a beneficiare di queste risorse, in palese violazione della Risoluzione Onu 3005 che prevede che tutte le risorse naturali della Striscia di Gaza debbano ricadere sotto il controllo dei residenti. Come sempre, tutto ciò avviene in spregio a tutte le leggi e con il silenzio complice della Comunità Internazionale.

di Manuela Comito


Gaza, i crimini sionisti
non fermano i pescatori

Striscia di Gaza – Come insegna la storia, i crimini israeliani non hanno mai fermato il coraggio e la volontà del popolo palestinese. A testimonianza di tutto ciò, sulle spiagge di Gaza sono apparse piccole barche di pescatori costruite con bottiglie di plastica. Per costruire ogni barca necessitano ben 700 bottiglie di plastica. Che dire, la fantasia vince sul terrorismo. Questa necessità nasce dal fatto che la marina militare israeliana colpisce e danneggia sistematicamente i pescherecci palestinesi.

Pescatori di Gaza: storia di quotidiana Resistenza


I pescatori gazawi non possono superare il limite delle sei miglia nautiche, anche se le acque a sovranità palestinese vanno ben oltre. Ma già se si allontano oltre le tre miglia dalla costa, le navi da guerra israeliane cominciano a mitragliare i pescherecci causando quotidianamente morti e feriti.

Questo limite illegale è stato imposto dalle Autorità israeliane, nonostante gli accordi di Oslo abbiano fissato a circa 20 miglia dalla linea costiera il limite massimo di allontanamento e nonostante le 12 miglia sancite dall’Accordo Bertini, stipulato nell’Agosto 2002 tra le Nazioni Unite e Israele. A novembre del 2012, con la mediazione egiziana, è stato firmato un “cessate il fuoco” che riportava il limite di distanza da Gaza a sei miglia nautiche, ma Israele, firmatario dell’accordo, si rifiuta di rispettarlo e ci sono state da quella data più di 265 violazioni da parte israeliana.

In conseguenza di ciò, i pescatori vengono quotidianamente arrestati, vengono loro confiscate le barche e le attrezzature, vengono feriti e uccisi. E’ importante notare che i pescatori si ritrovano a essere costretti a sfidare il limite imposto da Israele ogni giorno, dal momento che lo sfruttamento e l’inquinamento delle acque lungo la costa rende il mare poco pescoso. Inoltre, in alcuni periodi, attivisti internazionali accompagnano i pescatori nelle loro uscite in mare, nella speranza di fungere da deterrente per gli attacchi dei militari israeliani.

di Redazione

Soldati israeliani, allarme salute mentale

Dal 2010, c’è stato un aumento del 40% nel numero di consultazioni che i soldati israeliani nel servizio obbligatorio hanno tenuto con ufficiali della sezione salute mentale dell’esercito, secondo un rapporto pubblicato dal giornale sionista Haaretz. Le fonti militari sioniste (servizio di salute mentale) hanno definito l’aumento “drastico” e che sta logorando i terapeuti e la loro capacità di rispondere correttamente, ha aggiunto il rapporto.

I dati mostrano che circa 44mila soldati in tutti i comandi e settori dell’esercito israeliano hanno richiesto un appuntamento con l’ufficiale responsabile dell’ufficio salute mentale della loro unità nel 2017, rispetto ai 39.400 del 2013. Il rapporto riferisce che il sistema sanitario dell’esercito israeliano ha affermato che tra gennaio 2015 e aprile 2016 ci sono stati circa 16mila incontri tra soldati e ufficiali della salute mentale (molti soldati si sono incontrati più di una volta con gli ufficiali del reparto).

“Secondo le statistiche rilasciate di recente al Movimento per la libertà di informazione, nel 2017 circa 4.500 coscritti sono stati congedati nel 2017 per motivi di salute mentale, rispetto ai 4.190 del 2016 e 4.125 nel 2013, con un aumento progressivo del 15% dal 2013. I principali pazienti dei servizi di salute mentale sono soldati delle forze di terra israeliane, di cui fanno parte le unità speciali dell’esercito e le principali brigate da combattimento”.

Il rapporto attribuisce il forte aumento delle consultazioni sulla salute mentale in parte al “duro contesto socioeconomico di ampie fasce della popolazione, insieme a una motivazione ridotta a servire, al desiderio di guadagnare denaro e di usare il tempo per le esigenze personali dei soldati. L’aumento drastico naturalmente intensifica il burnout tra i terapeuti, e questo burnout rischia di ridurre la loro capacità di comprendere e aumentare la probabilità di una risposta aggressiva da parte dei soldati contro i terapeuti”.

Questi sono i risultati di un indottrinamento fondato sull’odio verso il diverso e soprattutto verso il popolo palestinese. Non sorprende il fatto che la mente umana non tolleri le atrocità che giornalmente i soldati israeliani commettono verso donne e bambini palestinesi. La mania di grandezza e la criminale follia segneranno il destino del regime sionista.

di Giovanni Sorbello

CACCIARE I PALESTINESI DALLA LORO TERRA – VERSANDOVI LIQUAMI

Non contenti delle demolizioni in corso a Umm al-Kheir e della distruzione del suo taboun, i coloni nel vicino Carmelo hanno iniziato a scaricare liquami sulla terra che appartiene al villaggio.

Di Yossi Gurvitz, per Yesh Din – By +972 Blog |Published March 31, 2017
Una delegazione del Centro per la Nonviolenza ebraica aiuta a ricostruire una casa demolita nel villaggio palestinese di Umm al-Kheir, 12 luglio 2016. Sullo sfondo l’insediamento israeliano del Carmelo (Michael Schaeffer Omer-Man). Il solito problema che insorge quando si vuole segnalare ciò che accade in Cisgiordania è l’ ampiezza della lente, un problema fisico essenziale: se vuoi mettere a fuoco i dettagli, devi restringere l’obiettivo. Eppure questi stessi dettagli fanno parte di un quadro più grande, che richiedo un obiettivo più ampio. All’apparenza, ciò che è accaduto a Umm al-Kheir, a sud delle colline di Hebron, a dicembre 2016 è un evento minore – a malapena degno di

nota. Nella colonia del Carmelo, è stato costruito un tubo di scarico che riversa i rifiuti della colonia direttamente nel terreno che appartiene al villaggio palestinese di Umm al-Kheir. Tecnicamente, non è nulla di più di un battibecco insignificante tra vicini.

Se non fosse per il fatto che questi non sono tipici vicini. Umm al-Kheir è stato costruito nel 1960 da profughi beduini che sono stati espulsi nel 1948 dalla regione di Tel Arad. Purtroppo per loro, sono stati nuovamente occupati da Israele nel 1967. Il villaggio si trova in Area C, il che significa che è sotto il pieno controllo militare e civile israeliano. Ci si poteva aspettare che Israele avrebbe investito in questo posto dal momento che gli abitanti del villaggio sono sotto la sua autorità e dal momento che Israele, come è noto, non è uno stato di apartheid.

Naturalmente, questo non è mai accaduto. Israele non si è interessato molto al piccolo villaggio palestinese, e nel 1981, nelle vicinanze, fu costruito l’insediamento del Carmelo. Il Carmelo è situato dove probabilmente Nabal il Carmelitano (vedi il primo libro di Samuele 25: 3) fu solito abitare.

Quindi i Palestinesi vivevano lì per primi? Non importa. Il governo – sotto le spoglie della’Amministrazione Civile – è dalla parte degli invasori. Umm al-Kheir aveva un taboun: un forno tradizionale di fango e fieno, che veniva utilizzato dagli abitanti del villaggio per cuocere il pane.

Una famiglia palestinese seduta sulle macerie della loro casa demolita nel villaggio cisgiordano di Umm el-Kheir, a sud delle colline di Hebron, il 6 aprile 2016. (Wissam Hashlamon / Flash90).
Per funzionare, il taboun doveva essere sempre in funzione. Dato che l’odore che emanava non era gradito agli abitanti del Carmelo, questi ne hanno chiesto la demolizione, sostenendo che si trattava di una struttura illegale. Gli abitanti del villaggio hanno iniziato un processo legale, e sono riusciti a ottenere un’ ordinanza che ha consentito di rimandare la demolizione.

..segue ./.

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