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La VOCE 1810 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XXI N°2 | ottobre 2018 | PAGINA G - 39 |
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Segue da Pag.38: L’autonomia del socialismo proprio il filosofo imolese aveva persino punzecchiato Marx per una traccia di venatura romantica presente nella sua istanza utopica di un passaggio quasi mistico dal regno della necessità al regno della libertà. Nel mondo della necessità, che non immagina agevoli e immediati ingressi del regno della libertà che si proietta oltre la divisione sociale del lavoro, la rappresentanza continua ad essere la chiave istituzionale del rapporto politico[15]. La teoria politica di della Volpe non seguiva dunque un itinerario sempre coerente nel tentativo di abbozzare una sintesi storica di Rousseau e Locke, di democraticismo e liberalismo perché, se ben delineata era la transizione a una “democrazia sociale post-borghese” incardinata sulla libertas major come dominante rispetto ai diritti civili di proprietà, trascesa era in essa la questione della rappresentanza e dei protagonisti di una politica organizzata e aperta a soggetti plurali[16]. In della Volpe era esplicito il distacco dalle formule leniniste sulla politica e la dittatura perché al di là dei meriti storici, “è evidente che una concezione siffatta della democrazia non può essere un criterio teorico-pratico sufficiente a chi combatta oggi per la democrazia e il socialismo in paesi capitalistici forti”[17]. Nel quadro delle istituzioni liberali è possibile scavalcare la società borghese contrapponendo il criterio dei diritti del lavoro, e del merito personale, a quelli reclamati dalla proprietà. Uno degli assunti più rilevanti di Rousseau e Marx era che le forme, il complesso delle norme tecniche non sono elementi irrilevanti o ideologie ma istituti positivi nel funzionamento della nuova organizzazione della società. Su tali aspetti teorici già nell’opera del 1946 della Volpe aveva segnato un punto di chiarimento fondamentale: la messa a punto problematico-critica della ipotesi della estinzione dello Stato attorno alla quale erano fiorite inclinazioni romantiche prive di supporto analitico. A un teorico antiromantico, estraneo a scorciatoie metafisiche, non pareva sostenibile la dottrina di una immediata scomposizione dell’ordine politico. Che dai testi classici, questa era la sua asserzione perentoria, “si possa trarre la conclusione che Marx inclinasse all’abolizione dello Stato in genere, pare dubbio” (p. 81). Un autore come Marx che ragiona in termini di ipotesi e di descrizione puntuale dei rapporti non può lasciarsi andare a prefigurazioni di società lontane sulle quali non è possibile disporre di dati, sperimentazioni empiriche. La questione delle trasformazioni dello Stato in una società nuova è una “questione che Marx lasciò in sostanza senza risposta” (p. 81). Per della Volpe non era la centralità della tematica dell’estinzione dell’ordinamento coercitivo a ostacolare una scienza positiva della politica. Per il riconoscimento pieno della positività della tecnica, delle forme, e per la sua “critica radicale della teologia” Marx è estraneo a immediate o romantiche unità ricompositive, e persegue sempre parziali obiettivi di “unità mediata”. Questo è quanto impone il profilo temporale dei rapporti-istituti, il contenuto positivo del particolare-sociale, il significato delle regole che funzionano nella cornice della temporalità. Il comunismo si presenta perciò come una “ipotesi” non come una mitica, definitiva e extratemporale risoluzione delle contraddizioni. Con spirito critico e senza reticenze della Volpe non esitava a mostrare le ambiguità di talune civetterie marxiane che non gli sembravano molto compatibili con una libertà comunista intesa in senso finito, storico. Estranea alla rigorosa logica marxiana attenta al particolare, alla temporalità gli pareva l’idea di un salto dal regno della necessità al regno della libertà. La contrapposizione tra finito e idea, necessità e fine, bisogno e libertà era concepibile per lui solo in un precipitato “di tipo romantico, astratto, mitico” che trascende la positività della tecnica, e confusamente si proietta in un “oltre” la produzione, la società. Ciò, allo sguardo di della Volpe, rivelava comunque la presenza in Marx di una incertezza teorica o tono “economistico-avveniristico dovuto all’epoca” che rinviava a “una nozione di salto o rottura” tale da non reggere a una prova filosofica rigorosa (p. 102). Il “vago” concetto di salto rinviava a una eredità romantica da correggere, cioè a quella visione mitica che “risente dell’ottimismo scientistico (illuministico), se non anche dell’ottimismo dialettico del monista panteista Hegel” (ivi). Secondo della Volpe è pensabile solo una liberazione contingente e scandita dal tempo, dal fenomenico, e in tale modo associata al particolare mondo del finito, all’esistenza storica. Non gli pareva compatibile con lo statuto epistemologico di Marx l’apertura a una incondizionata, mitica dimensione intemporale, sovrasensibile, assoluta, in una sorta di ricaduta nella riedizione della rappresentazione immediata dell’homo noumenon. In questo profilo di una libertà concreta o sociale o comunista, diversa da quella delineata secondo “l’ideologia cristiano-liberale”, prezioso pareva il recupero di istanze di Hume e anche del Kant che suggerisce la connessione-mediazione tra gli eterogenei positivi come l’universalizzazione dell’azione e lo scopo o il particolare irriducibile. Per mediare tra autonomia-libertà ed eteronomia-socialità, tra dovere e interesse, la definizione offerta da della Volpe era quella di “una libertà storica, finita, non miticamente numerica o infinita, astratta, irreale o illibertà” (p. 138). Emendare anche Marx dai presupposti aprioristici, dal ricorso ad asserzioni inesplicabili o a indebite assolutizzazioni che la contraddizione non consente, per ricondurlo ogni volta sul terreno analitico, quello della logica aristotelica dell’intelletto che è sempre ancorato al particolare-temporale, era il proposito critico di della Volpe. L’impatto politico delle sue categorie non fu lineare e la loro accoglienza nella sinistra non fu agevole. NOTE [1] Questo profilo all’insegna dell’autonomia non basta ai suoi critici che denunciano in lui un pensiero non sufficientemente comunista con angolature tipiche dei “democratici di sinistra” (N. Badaloni, Percorsi di filosofia in B. Maiorca, Filosofi italiani contemporanei, Bari, 1984, p. 98). [2] Sulla “radicale ispirazione anticristiana” del pensiero di della Volpe insiste Prestipino, I valori etico-politici in Galvano della Volpe, in “Critica marxista”, 1979, n. 3, p. 34. Da questa curvatura laicista derivano molte diffidenze da parte del Pci, sensibile al dialogo con i cattolici (G. Fornero e F. Restaino, Storia della filosofia, Torino, 1998, v. 9). La critica gnoseologica al misticismo (come dottrina della conoscenza che postula una unità originaria) non è affatto una critica antireligiosa dalle valenze politiche. Anche per della Volpe, per il tramite di Rousseau, il socialismo ha una “eredità cristiana” (Cfr. Zolo, La teoria comunista dell’estinzione dello Stato, Bari, 1974, p. 49). Sul confronto del marxismo con il pensiero religioso cfr. A. Masullo, La filosofia cattolica nell’Italia democratica, in “Critica marxista”, 1976, nn. 5-6. Il marxismo nel più generale percorso della filosofia italiana è analizzato in A. Bausola, a cura di, La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi, Roma-Bari, 1985. [3] Per questa apertura democratico-deliberativa non sembra persuasiva la riconduzione della concezione del politico sviluppata dalla scuola dellavolpiana (cioè da della Volpe e Cerroni) entro un quadro “strettamente classista della lotta politica e delle sue finalità” e neppure esaustiva pare la lettura del dellavolpismo come riduzione “dell’agire politico allo schema schmittiano di amico-nemico” (F. Papa, Fondazione e crisi dell’idea di Stato di diritto, in “Il Centauro”, 1983, n. 8, p. 105). Sulla dottrina marxista dello Stato, in un’ottica dellavolpiana che subordina il potere al consenso della maggioranza, cfr. N. Merker, Metodo e storia nella teoria marxista dello Stato, in “Critica marxista”, 1976, n. 2. [4] Cfr. A. Postigliola, Rousseau e il marxismo italiano degli anni sessanta, in “Critica marxista”, 1971, n. 4. Sulla presenza di Rousseau nel marxismo italiano cfr. V. Mura, Il Contratto sociale: i frutti (avvelenati) dell’eredità di Rousseau, in G. M. Chiodi e R. Gatti, a cura di, La filosofia politica di Rousseau, Milano, 2012. Una informata ricostruzione delle posizioni del marxismo italiano nelle teorie dello Stato e soprattutto nella ricezione di Schmitt si trova in I. Staff, Staatsdenken im Italien des 20. jharhunderts, Berlin, 1991. [5] Del tutto inadeguata, per tracciare il percorso di una transizione ad altra organizzazione della società, è per Vacca (Scienza Stato e critica di classe, cit. p. 233) l’elaborazione di della Volpe che, nel recupero della legalità socialista, svela “l’infecondità analitica ovvero il suo formalismo” e mostra “un orizzonte politico fondamentalmente terzointernazionalista” |
che attinge “dall’ideologia stalinista dello Stato” (p. 237). La contestazione, ai limiti del paradosso quando parla di vicinanza del dellavolpismo a una staliniana dottrina della legalità, non intende recuperare con maggiore coerenza le forme, lo Stato di diritto in una prospettiva socialista ma rilanciare un’istanza di democrazia diretta, di pratiche di massa di riappropriazione della politica nel quadro di una destrutturazione del momento istituzionale. In realtà proprio “il marxismo della scuola dellavolpiana non si presenta come uno sviluppo lineare della tradizione marxista-leninista” e si caratterizza per l’assunzione del nesso democrazia-socialismo, il recupero del garantismo costituzionale, una sensibilità per filoni radical-democratici, il rifiuto di ogni “giusnichilismo e volontarismo”, per la ripresa di un’etica personalistica (Zolo, La teoria comunista, cit., p. 265). Anche dentro la cultura comunista che più lo accusa di “estremismo” si afferma che a della Volpe va riconosciuto “il merito di aver collocato, in modo più preciso, il marxismo nel grande alveo della concezione democratica, insistendo sulla precisa distinzione tra democrazia e liberalismo di cui non si era tenuto debitamente conto negli anni Cinquanta” (L. Gruppi, Sullo storicismo marxista, in “Critica marxista” 1971, n. 4, p. 15). [6] La teoria di della Volpe può sorreggere sia una “soluzione riformistica”, o “correzione del sistema” secondo compatibilità analitiche, sia letture, tipiche dei movimenti radicali ed estremisti, di esclusione “senza mediazione alcuna” di capitalismo e comunismo visti come “alternative globali” (Prestipino, La scuola di della Volpe, cit., p. 55). Questo rilievo trascura la centralità nell’indagine dellavolpiana del nesso problematico e complesso tra antecedente e conseguente, che esclude in linea teorica qualsiasi idea di una immediata rottura di sistema. A una lettura filologica attenta essa appare come la più matura definizione teorica di un modello di democrazia capace di contenere istanze garantistiche e impulsi di trasformazione, motivi egualitari-sociali e momenti di libertà civile. Le critiche, che la sua connessione tra Rousseau e Marx ha scatenato, sono ispirate non alla preoccupazione per le forme e garanzie bensì al timore di un ripudio della nozione di dittatura del proletariato, che deriverebbe dall’innesto della dottrina del materialismo storico con il contributo del ginevrino (N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali, Roma, 1971). Nelle tendenze marxiste più collegate alla formula della dittatura del proletariato, e al rifiuto di ogni sensibilità verso le manifestazioni di garantismo, è forte la contestazione delle categorie di della Volpe. Secondo Vacca (Scienza Stato e critica di classe, cit., p. 213) la teoria di della Volpe non afferra le contraddizioni sociali peculiari della transizione e, non comprendendo “i compiti specifici della dittatura del proletariato” nella sua sintesi politica di coercizione ed egemonia, approda in una fuorviante “richiesta di reintegrazione dei principi dello Stato di diritto nello Stato di transizione”. [7] G. della Volpe, Opere, vol. 4, cit., p. 23. Il tema della politica come anticipazione, attraverso il gioco delle sovrastrutture politiche e giuridiche, di dinamiche strutturali viene rigettato in un’ottica di completo dissolvimento del politico-statuale nel sociale (Vacca, Scienza Stato e critica di classe, cit., p. 44). La prospettiva di una politica come organizzazione specifica e complessa viene contestata in vista di una destrutturazione dell’impianto istituzionale-rappresentativo. Con la “rivoluzione popolare diretta dalla classe operaia” si prepara l’opera di distruzione della macchina statale separata che richiede la dittatura del proletariato (con “l’appropriazione sociale delle funzioni politiche”) quale “cerniera indispensabile” per conferire stabilità all’alleanza tra le classi antagoniste (p. 203). Il dominio di classe non accorda rilevanza alle mediazioni istituzionali che vengono riassorbite nelle pratiche di massa. [8] G. della Volpe, Opere, vol. IV, cit., p. 403. [9] G. della Volpe, Opere, vol. III, cit., p. 232. [10] G. della Volpe, ivi, p. 268. Per una critica delle esperienze di “autoritarismo socialista”, che subordina l’individuo allo Stato, la norma al comando imprevedibile, esalta i doveri e le finalità sociali e “riduce fortemente lo spazio per la realizzazione dei diritti dell’individuo” cfr. invece U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Roma, 1969, p. 154. Il garantismo, ossia il rifiuto della commistione tra diritto e politica, il rigetto della considerazione del reato come pericolosità sociale misurata dal potere secondo un metro politico e al di fuori di una tipologia legale, il divieto del ricorso al canone dell’analogia per la considerazione di elementi del favor rei e della presunzione di innocenza, la configurazione del pubblico ministero come parte processuale, postula la necessità della mediazione giuridica, la persistente divisione degli interessi individuali da quelli dell’amministrazione. [11] Bobbio (Questioni di democrazia, in “Sisifo” settembre 1989) rievoca la sua lontana disputa con della Volpe e rammenta che nel 1957 il filosofo marxista ebbe un ripensamento che lo indusse al recupero dei princìpi del liberalismo, dello Stato di diritto in quanto “bisognava risalire non soltanto a Rousseau ma addirittura a Locke”. Cfr. anche N. Bobbio, Galvano della Volpe, in La mia Italia, pp. 254-268. Sulla disputa tra Bobbio e della Volpe in merito al contrasto logico tra liberalismo-democrazia o tra Kant e Rousseau cfr. C. Violi, Rousseau e le origini della democrazia moderna, “Critica marxista”, 1966, n. 4; V. Pazé, a cura di, L’opera di Norberto Bobbio, Milano, 2005; Su Bobbio, della Volpe e la via italiana al socialismo cfr. R. Bellamy, Modern Italian Social Theory, Cambridge, 1987, pp.. 141 sgg. [12] Questo è il tema della differenza che ricorre centrale in J. Rawls, o nella teoria delle “sanzioni positive” che prevede remunerazioni, premi messa a punto da N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione, Milano, 1977, p. 107. [13] G. della Volpe, Opere, vol. V, cit., p. 228. Sul nesso ricavato dalla scuola dellavolpiana tra il Marx giovane (e della Comune), teorico della “vera democrazia”, e comunismo, nell’ambito del collegamento con Rousseau cfr. A. Chrysis, True Democracy’ as a Prelude to Communism, New York, 2018, p. 14 sgg. [14] G. della Volpe, Opere, vol. III, cit., p. 279. [15] Critico verso le istanze di legalità socialista formulate da della Volpe (con il suo “inevitabile esito neogarantistico” e il “suo formalismo non certo vuoto” approda alla “surrettizia e macroscopica ipostatizzazione dello Stato di diritto”) si mostra Vacca (Scienza Stato e critica di classe, cit., p. 195; p. 212), che parla di una società di transizione come ultima fase della società di mercato e come ingresso in un tempo nuovo dove la classe esercita un ruolo centrale rispetto al partito, alle istituzioni. Le aperture allo Stato di diritto, alla legalità sono guardate come cedimenti a sensibilità liberali. La legalità socialista appare “angustamente ancorata alla sfera della distribuzione” (ivi, p. 195) e poco adatta a tracciare i tratti di una società di transizione sprovvista di forme che postula una “iperbolica dilatazione della democrazia” con la promozione di “una partecipazione politica inusitata” con la quale “i produttori si appropriano per la prima volta su scala sociale delle leggi di funzionamento della politica” (ivi, p. 200). [16] Sulla prospettiva analitica di della Volpe cfr. B. Accarino, Galvano della Volpe, Bari, 1977. Per le scuole marxiste degli anni Settanta, della Volpe si era spinto troppo in là nel recupero della nozione di Stato di diritto, nell’invocazione del principio di legalità anche nella fase di costruzione del socialismo che esigerebbe invece dittatura del proletariato e de-democratizzazione. Sulle metafore politiche improntate a un “provvidenzialismo orizzontalista” della scuola di Bari che enfatizza la partecipazione delle masse, la razionalità concreta che riassorbe la forma con suggestioni anti-istituzionali, per “agganciarsi alla generale rivolta orizzontalista in corso” cfr. O. Romano, L’ambigua potenza del marxismo all’alba del neo-orizzontalismo, in Vacca, a cura di, La crisi del soggetto, Roma, 2015, p. 453. [17] G. della Volpe, Opere, vol. VI, cit., p. 278. “Della Volpe è stato il primo intellettuale marxista ad affrontare in Italia il problema di una transizione democratica” per il socialismo (M. Fedeli de Cecco, Rousseau e il marxismo italiano nel dopoguerra, Bologna, 1982, p. 80). Non mancano semplificazioni nella riflessione italiana che, dopo aver archiviato la nozione di dittatura del proletariato confida in una “transizione semiautomatica” (ivi, p. 82). E però il tentativo rimane rilevante. L’ultimo della Volpe (Opere, vol. VI, cit., p. 352) si cimenta sulle tematiche marxiane dei Grundrisse e pone al centro della analisi delle società avanzate la questione della automazione, della contraddizione tra tecnica e tempo da porre al riparo dalle paure metafisiche sulla “società amministrata”. |
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