Il metodo scientifico di Marx ed Engels è di straordinaria efficacia, esso è lontano sia dal metodo conoscitivo del pensiero socratico che dal più moderno metodo cartesiano: il loro metodo è invece molto vicino ad una linea descrittiva che nell’800 fu fatta propria ed approfondita dagli studiosi naturalistici.

Esso deriva piuttosto da Ippocrate (non dimentichiamo che Ippocrate fu il primo ad introdurre il concetto che salute/malattia dipendessero da circostanze naturali e non da interventi divini e lo provò semplicemente debellando la grande peste in Atene: se i posteri si fossero ben ricordati di lui, la nascita di Cristo, quattrocento anni dopo, avrebbe avuto una rilevanza puramente anagrafica, e tra i personaggi più illustri che adottarono e ampliarono tale metodo naturalistico annoveriamo nientemeno che Leonardo.

In pratica la rivoluzione cartesiana, di cui ancora oggi siamo succubi, ha prodotto, dopo l’avvento del pensiero debole, la spregiudicata convinzione che quasi ogni teoria scientifica sia in ultima sostanza dimostrabile, anche esattamente il contrario di una teoria dimostrata e per contro che non vi sia nulla di veramente scientifico.

Marx ed Engels, come pochi loro contemporanei, sono oltre la metafisica, ma anche oltre l’illuminismo, diremo che sono piuttosto proiettati nel futuro: hanno ad esempio una popperiana funzione di negazione della conoscenza fino ad allora conosciuta in ragione di un procedimento di studio puramente analitico e si raccordano piuttosto con Wittgenstein, attraverso Frege, e B. Russel, per il quale è piuttosto l’adesione del linguaggio alla realtà a risolvere il problema della conoscenza piuttosto che una procedura tecnica; come si può infatti negare che Marx, al pari di Einstein o di Copernico o di Copernico o di Galileo, come tutti i più illustri pensatori, non abbiano svolto un’operazione di ricostruzione epistemologica modificando il linguaggio per renderlo più idoneo a descrivere la realtà, e come negare che ogni loro limite sia solo nelle possibilità di scoprire un linguaggio che sia ancora più aderente del loro nella descrizione della realtà.

Io penso che una delle più importanti intuizioni di Engels e Marx sia stata che fu la divisione del lavoro la causa principale dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e maggiormente dell’uomo sulla donna; prima che la procreazione o il mantenimento e l’educazione dei figli divenisse una proprietà personale non era necessaria l’introduzione di sovrastrutture sociali differenziative, ma allo stesso tempo la loro introduzione è la principale causa della nostra attuale incapacità di ridurre o eliminare i danni che ha prodotto, almeno finché non rinunceremo a tale sovrastruttura: così, cioé come “è l’uso che crea l’organo”, allo stesso modo è il comportamento che crea il linguaggio: pertanto solo rinunciando ad un comportamento diversificativo potremmo ricreare un linguaggio di conoscenza della realtà più aderente e soddisfacente per l’ umanità intera.

Ecco perché inserisco il mio modesto appello a quello di compagni più illustri e preparati di me, in questa prefazione per il centenario della morte di Engels, per la diffusione, la lettura e lo studio approfondito di questo testo scritto da Engels in età matura, già dopo la morte di Marx, al quale Engels non ha dimenticato di rivolgere un omaggio (“… il mio lavoro può solo offrire un modesto surrogato di ciò che al mio amico scomparso non fu più concesso di fare.Tuttavia ho davanti a me le annotazioni critiche ai suoi ampi estratti da Morgan, che riproduco qui nella misura in cui è possibile”) o quasi una dedica postuma con “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”: infatti già Marx era stato molto chiaro affermando, nella “Concezione materialistica della storia”, che il lavoro è alienato dall’uomo quando si subordina il suo lavoro (universale sopravvivenza della specie) ad un bisogno individuale; la sopravvivenza personale o di gruppo (proprietà, nepotismo ecc.). La stessa distinzione tra lavoro e lavoro, fosse anche questo lavoro la riproduzione stessa della specie, genera ineguaglianza, separazioni e ingiustizie: tra monismo e dualismo se ne esce bene soltanto con il comunismo.

Lo stesso concetto di divisione diventa un archetipo interpretativo nella filosofia engels-marxiana, che identifica la degenarazione, il decadimento delle società originarie in società di classi,dalle quali unica catarsi possibile è quella che passa attraverso la rinuncia alla divisione.

Voglio concludere la mia prefazione con una ipotesi stimolante per sottolineare quale importanza potrebbe avere la profonda comprensione di questo scritto: Einstein conosceva e apprezzava il lavoro di Marx ed Engels, quindi se capì che la divisione del lavoro fosse all’origine delle incomprensioni sociali, potrebe anche avere avuto l’intuizione che all’origine delle incomprensioni della fisica ci fosse la divisione qualitativa tra materia ed energia, così come i fisici contemporanei hanno capito che il principale errore di Einstein fu quello di pensare che l’ultima dimensione da riunificare fosse il tempo invece di capire che non viviamo in un universo ma in un multiverso dove le dimensioni si moltiplicano e per capirle dobbiamo agirle per scoprire un linguaggio che le unifichi.

Ancora una volta l’evoluzione del pensiero, causato da azioni differenti, genera un linguaggio più aderente alla realtà e ancora una volta si dimostra che il percorso della conoscenza è in direzione opposta alla divisione: semplicemente il nostro cervello si deve ancora una volta aprire per comprendere in una, cose separate.

Così come non abbiamo ancora ben capito ogni conseguenza tra quantità e qualità nella fisica, altresì non abbiamo ancora fatto nostra la conseguenza degli studi di Engels sull’origine, della proprietà privata e dello Stato.

La divisione del lavoro subordinata a ragioni superiori o diverse da quelle naturali è un passo indietro nella qualità della vita, è un passo indietro, un allontanamento dl comunismo e da una maggiore comprensione dell’universo, da una maggiore apertura della nostra testa e forse anche da una successiva possibilità di evoluzione dell’homo sapiens sapiens (non dimentichiamo di leggere ,dello stesso Engels, “La parte avuta dal lavoro nel processo di evoluzione della scimmia”).

“L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” sintetizza e sistematizza ben quarant’anni di ricerche e analisi, di riflessione ed elaborazione comune dei due fondatori del materialismo dialettico attorno alla storia della razza umana e all’unico possibile riscatto nel comunismo.

Monogamia e proprietà privata vanno di pari passo con divisione del lavoro innaturale e sfruttamento (la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile), mentre poliandria e poligamia vanno di pari passo con civiltà matriarcali e assenza di conflitti: già a fine ‘800 fu possibile verificarne la veridicità in civiltà sopravvissute (i Giliaki dell’isola di Sachalin e altre poche civiltà tribali: anche il tipo della famiglia punalua consiste in una sorta di fratelli carnali e più lontani, i quali sono coniugati con una serie di sorelle carnali e più distanti), dove l’omicidio è quasi del tutto assente e comunque mai motivato da cupidigia, dove i beni sono comuni, dove ogni individuo manifesta onestà, fidatezza e coscienziosità, forte senso del disonore in caso di infrazioni alle regole della tribù, ospitalità, e protezione anche nei confronti dei vecchi (ai nostri giorni sopravvivono civiltà simili anche in Amazzonia e nel centro del Brasile).

Roberto Gessi