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La VOCE 1704 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XIX N°8 | aprile 2017 | PAGINA 8 |
La crisi umanitaria in Africa e l’indifferenza dell’Europa![]() di Carlo Troilo, Associazione Luca Coscioni Stephen O’Brien, sottosegretario generale dell’Onu per gli aiuti umanitari, annuncia una imminente crisi umanitaria, che sarà la più grave dalla nascita dell’ONU. Soprattutto in Sud Sudan, Yemen, Somalia e Nigeria del Nord Est l’emergenza-carestia mette a rischio di morte per fame 20 milioni di persone; già oggi il 30% dei bambini sotto i 5 anni di età soffrono di malnutrizione. O’ Brien invoca uno sforzo coordinato e globale: 4,4 miliardi di dollari da reperire entro giugno. Dinanzi a questa tragedia, l’Europa non può tacere. Mancano meno di due settimane alla celebrazione dei 70 anni dei Trattati di Roma. L’Italia deve prendere una iniziativa perché l’Europa faccia fronte almeno in larga parte a questo ingente fabbisogno. Una possibile soluzione è quella di imporre, in tutti i paesi della Comunità, una tassa una tantum sul fatturato delle industrie degli armamenti, che supera i 40 miliardi di dollari l’anno. Dunque, circa il 10% di prelievo straordinario a carico di queste industrie, che non rientrano certamente fra i benefattori dell’umanità. E’ giusto anche che l’Italia, che fra l’altro ospita a Roma la sede della FAO, denunci senza mezzi termini la pessima gestione di questa grande organizzazione, che spende quasi la metà del miliardo di dollari cui ammonta il suo budget annuale per alcune migliaia d dipendenti, i cui privilegi di ogni genere sono un autentico scandalo. Ma soprattutto va recuperata e portata concretamente avanti quella politica di riduzione delle nascite che Marco Pannella qualificava come “rientro dolce”: una politica che non può prescindere da un controllo esercitato anche con i contraccettivi. Dinanzi all’incombere di questa immane tragedia, sarebbe lecito attendersi da Papa Bergoglio – che ha voluto dedicare alla “Misericordia” un Giubileo straordinario – un gesto di coraggio di cui da decenni si discute in Concili e Concistori senza trovare una soluzione che risparmi la nascita di tanti esseri umani destinati ad ogni forma, anche le più abiette, di sfruttamento o ad una lenta ed atroce morte per fame, inconcepibile nel XXI Secolo. (15 marzo 2017) Le bestie da soma dIsraelePablo Castellani | nena-news.it 11/03/2017 Hebron – Un gruppo di uomini osserva un punto lontano. Hanno tra i 17 e i 25 anni, indossano abiti da lavoro, parlano poco. Alle loro spalle un pick up con il motore al minimo, nellaria regna il silenzio. Guardano il muro israeliano con i suoi 700 chilometri di cemento e recinzioni, la "Linea verde" tra Israele e Cisgiordania. Aspettano il momento giusto: qui, solo una recinzione impedisce ai giovani di passare dallaltra parte. Oltre la rete una superstrada e poi il paesaggio desertico si trasforma in una scena collinare verdeggiante e rigogliosa. Da lì inizia Israele. Il gruppo inizia a correre velocemente verso la recinzione. Alcuni scavalcano da soli, altri tirano il bagaglio e poi passano oltre aiutati dai compagni. Cadono dallaltra parte e si lanciano a testa bassa nellautostrada fino al guard rail per poi sparire tra gli alberi di un boschetto. Pochi istanti e di loro non cè più traccia, sono passati. Nella scena torna il silenzio. Ci troviamo nel governatorato di Hebron, in un villaggio che confina direttamente col muro di separazione: si è consumato un evento che si ripete quotidianamente in tutta la Palestina. Il fenomeno dei palestinesi che entrano in Israele per andare a lavorare come irregolari nei cantieri. Tra di loro si definiscono donkey workers, bestie da soma, la forza lavoro occulta di Israele. Limmigrazione illegale, secondo il Population and Immigration Authority israeliano, coinvolge ogni anno circa 17mila persone che entrano in Israele dai Territori Occupati, ma il numero potrebbe essere più alto. Secondo fonti palestinesi e indipendenti, potrebbe riguardare 50mila persone per la sola Cisgiordania, che lavorano o vivono senza permesso oltre la Linea Verde. Secondo BTselem, centro di informazioni israeliano per i diritti umani nei Territori Occupati, sono «decine di migliaia i palestinesi disperati disposti a correre il rischio di entrare in Israele senza permesso. Ogni settimana migliaia di questi lavoratori sono catturati dalle forze di sicurezza israeliane». Questa zona è particolarmente interessata dagli attraversamenti per via della sua posizione geografica privilegiata: il muro ancora in costruzione sorge poco distante. Attraverso strade dissestate, i pick up dei trafficanti fanno avanti e indietro per portare i lavoratori. Il punto di raccolta è in uno spiazzo del villaggio, dove ad ogni ora del giorno e della notte si radunano uomini in attesa del proprio turno per scavalcare, sperando di essere fortunati come chi li ha preceduti. Quando si raggiunge il numero minimo per un viaggio, si parte. Riusciamo ad ottenere un incontro con alcuni lavoratori pochi istanti prima che salgano sui pick up, in un edificio adiacente larea di raccolta. Un sottoscala spoglio di mobili, qualche sedia, materassi negli angoli. Nessuno rivela il proprio nome, ma sono disposti a raccontare la loro esperienza. I donkey workers sono diretti in varie località di Israele per lavorare, soprattutto nei cantieri e nellagricoltura: «Tutti quelli interessati a dirigersi in una determinata zona si organizzano con una macchina», ci dicono. Secondo uno studio ufficiale israeliano del settembre 2015, la maggior parte dei lavoratori irregolari sono impiegati nel settore dellassistenza (caregiving), mentre un migliaio lavorano nei cantieri. Tuttavia anche questi numeri sono sottostimati: secondo il sindacato indipendente israeliano Wac Maan, il numero di cantieri israeliani aperti nel biennio 2014/2015 era di 13mila. Con la sua prolifica industria del mattone e la costruzione continua di insediamenti illegali nei Territori Occupati, Israele ha bisogno di manovalanza. Ciò che spinge i lavoratori palestinesi ad andare allinterno di Israele o negli insediamenti è lo sfruttamento che subiscono nei propri cantieri e il basso reddito allinterno dei Territori Palestinesi, schiacciati da una crisi economica senza via di uscita a causa delloccupazione israeliana e dellinattività dellAutorità Palestinese. La paga è alta per lo standard di un palestinese: gli stipendi medi di un operaio in Cisgiordania si aggirano sui 50/60 shekel (10 euro) al giorno, «mentre in Israele puoi fare 200, 300 shekel (50 euro)». |
Il costo del trasporto è variabile ma non certo economico: può andare da 100 fino a 500 shekel se si intende raggiungere un luogo molto a nord, per cui si tende ad aggregare più persone nello stesso posto per abbassare il costo del viaggio e ad allungare il periodo di permanenza, da un paio di settimane fino ad alcuni mesi. A carico dei lavoratori ci sono anche i costi di vitto e mantenimento. «Non è semplice – ci dice uno di loro – A volte torniamo con le tasche vuote, perché abbiamo dovuto coprire le spese». I rischi cui queste persone vanno incontro sono tanti: «Non possiamo girare liberamente per Israele – raccontano – per cui dobbiamo nasconderci quando finisce il turno. Dormiamo dove lavoriamo, nei sotterranei, sui tetti o vicino al cantiere, nelle foreste, qualsiasi luogo dove nascondersi. Costruiamo un muro finto nei cantieri e poi lo buttiamo giù al mattino. Facciamo tutto ciò che serve per nasconderci dalla polizia. Se ci arrestano, ci lasciano in cella per diversi giorni e se ci va bene ci ributtano al confine». Secondo BTselem, la procedura per gli irregolari arrestati dalle forze di sicurezza israeliane va dalla multa allincarcerazione fino al respingimento. Accanto alle procedure ufficiali, però, BTselem denuncia lesistenza di una serie di «protocolli informali» che comportano «abusi ed umiliazioni» per i palestinesi catturati. In molti casi, continua lorganizzazione, «i palestinesi sono vittime di aggressioni violente e gravi maltrattamenti da polizia e soldati. Anche se le autorità israeliane condannano ufficialmente tale comportamento, nella stragrande maggioranza dei casi non riescono a perseguire i responsabili e, tra le omissioni e questi comportamenti, il fenomeno resiste». Lesistenza di lavoratori irregolari sfruttati nei cantieri è ben conosciuto in Israele e, sulla carta, si cerca di contrastarlo. A marzo 2016, la Commissione Affari Interni della Knesset (il parlamento israeliano), ha approvato un progetto di legge che mira ad arrestare lafflusso di lavoratori illegali dai Territori Occupati: il datore di lavoro israeliano potrebbe essere punito fino a quattro anni nel caso abbia assunto un manovale per più di 24 ore, eppure questo provvedimento non sembra essere applicato alla lettera dalle forze di polizia. In caso di incidenti sul lavoro, il destino di queste persone è infausto: nella migliore delle ipotesi gli operai devono trovare il modo di raggiungere un ospedale palestinese con le proprie gambe, in quanto il costruttore non gli garantisce assistenza. «Piuttosto avviene il contrario! – spiegano – In caso di incidenti, allarrivo della polizia, il datore di lavoro nega di conoscere il lavoratore infortunato, e spesso la passa liscia». Uno degli intervistati, rimasto in silenzio e con il volto nascosto per tutto il tempo, mostra una mano mutilata: ha avuto, ci dice, un incidente sul lavoro con una sega elettrica circa sei mesi prima. Il costruttore lo ha lasciato senza provvedere al primo soccorso. Un altro interviene mostrando anche lui i segni di un grave incidente. Il suo datore di lavoro lo ha portato fino ad un ospedale palestinese, assicurandogli che avrebbe pagato lassicurazione. «Quando sono uscito – ci dice – il mio capo ha negato ogni coinvolgimento». Entrambi dopo quella esperienza hanno cambiato mestiere e sono passati dalla parte dei trafficanti: «Si rischia meno e si guadagna di più». Secondo BTselem, «i datori di lavoro israeliani sfruttano il disagio dei palestinesi, in particolare i lavoratori che non hanno permessi per entrare e soggiornare in Israele, per pagare bassi salari e fornire condizioni squallide, negando i diritti previsti dalla legge». La Coalizione contro gli incidenti sul lavoro, organizzazione di avvocati, lavoratori e attivisti per i diritti umani, insieme al Wac Maan, ha denunciato una condizione di enorme irregolarità sui luoghi di lavoro. Secondo queste organizzazioni, nel 2015 solo 17 ispettori del lavoro hanno vigilato su 13mila cantieri aperti: circa 750 cantieri per ispettore, una media impossibile da sostenere. Una situazione di irregolarità che ha portato a un incremento degli incidenti mortali sul lavoro: nel 2014 è stato di 11,53 ogni 100mila lavoratori. Al di fuori delledificio si è creato un gruppo di uomini davanti ai pick up. Cè numero sufficiente per un viaggio verso le recinzioni ed è il momento di partire. Li salutiamo. In pochi istanti lo spiazzale si svuota, i pick up lasciano dietro di loro una scia di polvere. E nel villaggio torna il silenzio. Yemen. Due anni di guerra, fame e armi occidentali Nena News | nena-news.it 23/03/2017 Sono trascorsi 24 mesi dal lancio di "Tempesta Decisiva", un conflitto che lArabia Saudita non riesce a vincere ma che ha messo in ginocchio il paese. Con laiuto dei 5 miliardi in armi arrivati da Londra e Washington Domenica 26 marzo saranno trascorsi esattamente due anni dal lancio di "Tempesta Decisiva", loperazione militare della coalizione sunnita contro i ribelli Houthi in Yemen. Unoperazione che, nelle iniziali previsioni dellArabia Saudita, leader della coalizione, sarebbe dovuta durare pochissimo, spezzare in breve tempo la resistenza del movimento Houthi che dal settembre 2014 aveva assunto il controllo di buona parte del paese, in particolare il nord e il centro e la capitale Sanaa. A due anni di distanza la guerra non è finita, lArabia Saudita è invischiata in un conflitto che non riesce a vincere e lo Yemen è ridotto letteralmente alla fame. Il paese è devastato, le infrastrutture distrutte: mancano cibo e acqua, l80% della popolazione necessita di aiuti immediati che non arrivano a causa del blocco aereo imposto dai sauditi e seguito a quello ufficioso degli Stati Uniti via mare. Al Qaeda nella Penisola Arabica, il braccio più potente della rete jihadista, ha ampliato i territori sotto il proprio controllo, alleandosi via via con tribù, consigli locali anti-Houthi e in alcuni casi, come la città di Aden, con le forze governative alleate di Riyadh. Lo Stato yemenita non esiste più e i deboli tentativi dellOnu di far sedere allo stesso tavolo Houthi e coalizione sono falliti a causa delle precondizioni delle parti: ben sette cessate il fuoco sono evaporati prima di avere effetto. Lo scorso anno il movimento ribelle aveva accettato limplementazione della risoluzione Onu 2216 del 2015, che prevedeva labbandono delle armi e il ritiro dalle zone occupate per dare il via al dialogo politico. Ma Riyadh ha sempre boicottato ogni possibilità di negoziato pretendendo il ritiro prima di accettare i punti del dialogo politico. Perché, nelle intenzioni saudite, nel futuro dello Yemen non cè spazio per un potere alternativo a quello saudita. E i numeri del disastro crescono: 12mila morti, 42mila feriti gravi, tre milioni di sfollati, 19 milioni di persone senza cibo e acqua a sufficienza e 7 milioni di questi a rischio immediato di carestia. Oltre due milioni di bambini soffrono di malnutrizione, 462mila sono gravemente malnutriti. Ad accendere un conflitto che è chiaramente regionale, che coinvolge il confronto tra asse sunnita e asse sciita, che serve a Riyadh a rialzarsi dalla sconfitta subita in Siria, sono gli alleati occidentali dei Saud. Da tempo nel mirino di organizzazioni per i diritti umani e associazioni di base ci sono i governi di Londra e Washington – ma anche quello italiano – per il sostegno indefesso che viene garantito a Riyadh. Con le armi. Se lOnu ha imposto lembargo militare agli Houthi, la stessa previsione non vale per la coalizione a guida saudita. Oggi Amnesty International ha pubblicato un duro rapporto sul ruolo di Stati Uniti e Gran Bretagna nella guerra allo Yemen: "I trasferimenti multimiliardari di armi allArabia Saudita da parte di Usa e Regno Unito – si legge – non solo alimentano le gravi violazioni dei diritti umani che stanno procurando una sofferenza devastante alla popolazione civile dello Yemen, ma superano di gran lunga il valore del loro contributo alle operazioni umanitarie nel paese". In particolare, secondo lorganizzazione, Londra e Washington hanno trasferito nelle casse di Riyadh oltre 5 miliardi di dollari, 10 volte tanto i 450 milioni spesi per aiuti umanitari. Armi usate per stragi di civili, bombardamento di ospedali, cliniche e scuole, raid su infrastrutture, mercati, zone residenziali e siti archeologici di estremo valore. A questi si aggiungono i dati riguardanti lItalia: nel 2016 Roma ha fornito a Riyadh bombe e munizioni per un valore di oltre 40 milioni di euro, contro i 37 milioni del 2015. |
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